Soliti noti offresi, no piccole città, la noia è inclusa
Improvvisi «Cerca di liberarti per oggi pomeriggio – mi disse una voce dall’altra parte del filo – c’è Richter che suona a Benevento»...
Improvvisi «Cerca di liberarti per oggi pomeriggio – mi disse una voce dall’altra parte del filo – c’è Richter che suona a Benevento»...
Ricordo nitidamente la telefonata che mi raggiunse, in un giorno di trent’anni fa: «Cerca di liberarti per oggi pomeriggio – diceva la voce dall’altra parte del filo – c’è Richter che suona a Benevento». Il sommo Svjatoslav Richter, all’epoca già settantaseienne, suonò davvero in una sala poco distante dal Conservatorio, quel giorno, senza preavviso e davanti a un pubblico sparuto di fortunati ascoltatori, bravi a cogliere l’attimo. Una cosa del genere, oggi, non succederebbe più e una telefonata come quella rievocata sarebbe presa come uno scherzo di mediocre gusto. E non solo perché i fuoriclasse come Richter siano in via di estinzione, ma soprattutto perché la struttura del mercato musicale attuale – con i suoi meccanismi di comunicazione e distribuzione rigorosamente calibrati – non consentirebbe più a una star di proporsi in un centro medio piccolo e in semiclandestinità.
Il romanticismo non è tratto contemplato nei mansionari di chi gestisce, oggi, i destini degli artisti di punta o di quanti si è stabilito (arbitrariamente, a volte) che arrivino ad esserlo. Meglio mettere da parte consunte, affettuose associazioni tipo «genio e sregolatezza, perché la logica che nel secondo millennio determina spostamenti, presenze e carriere dei musicisti che contano non ammette deroghe alle regole aziendali di massimizzazione dell’immagine e, ove possibile, del profitto. Un secolo fa, Arturo Toscanini e la nascitura Orchestra della Scala andarono in tournée per duecentotrentasette giorni, con centoventicinque concerti in sessantotto città di due continenti. In Italia suonarono anche a Pavia, Alessandria, due volte a Treviso; negli Stati Uniti toccarono qualsiasi piazza, piccola e grande. Scommisero su loro stessi e sulla capacità di autopromuoversi, assumendo un ruolo imprenditoriale innovativo per l’epoca. Considerata con occhi moderni, quella tournée è roba fuori dal tempo; fantascienza o preistoria, a seconda dei punti di vista. Il decentramento, che negli anni Settanta coincise con la necessità di diffondere il messaggio musicale in maniera ampia e democratica (influendo anche sulla scelta di spazi irrituali e sulla politica dei prezzi) è concetto demolito dalla nuova strategia globale delle grandi agenzie internazionali, che per alcuni interpreti in auge ammettono solo sale grandi in grandi capitali. Con grandi cachet, si capisce.
Alimentata da questo meccanismo esclusivo, una «superlega» della musica – non meno perniciosa di quella ipotizzata e fortunatamente respinta per il calcio – imperversa già da tempo su scala mondiale, allargando la forbice tra contesti produttivi e altri, così da alimentare la convinzione che alla visibilità mediatica debba corrispondere la qualità. All’operatore culturale che crede ancora, da improbabile romantico, alla necessità di costruire una proposta insieme alla controparte artistica, le nuove agenzie multinazionali hanno già sottratto una buona fetta di illusioni: spesso, infatti, neppure esiste un interlocutore col quale confrontarsi, fatta salva la parte che riguarda la contrattazione economica. Nel booking, ossia nella fase di vendita, si sostanzia il grosso del rapporto tra le parti; il resto è comunicazione, che può diventare bombardamento mediatico laddove la circostanza lo richieda. La sostanza musicale viene dopo.
Nel mondo virtuale del web, illuminato dalla rivelazione forzata dello streaming, la nuova struttura oligarchica dell’offerta concertistica trova, peraltro, un alibi comodo, basandosi sulla pretesa di fare credere che non esiste o quasi differenza tra musica fruita dal vivo o a distanza. Intanto fa passare per opportunità ciò che semplicemente è obbligatorio, di fatto negandoci la scelta. Trattato come bene di lusso, il «concerto-evento» diventa vetrina per lo sponsor di turno, che nella riconoscibilità immediata del prodotto cerca e trova l’elemento di attrattiva su cui puntare. Risultato? Un panorama musicale popolato da pochi soliti noti e un pubblico, impigrito, indotto a ri-ascoltare e ri-vedere piuttosto che ad allargare lo sguardo. Meno curioso, e non per sua colpa.
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