Quella che segue è parte di una delle ultime interviste a Mario Soldati se non, verosimilmente, l’ultima in assoluto fatta allo scrittore prima della sua morte.

Con Moravia, mi dice, siamo stati molto amici, una grande amicizia come con Greene. Con Pavese i rapporti sono stati più radi, ma sempre molto affettuosi. In comune hanno avuto l’esigenza di trasferire la vis letteraria nel contenitore filmico, una continuità ideale che contribuì, nel caso di Pavese, con il rifiuto dell’industria cinematografica, a spingerlo al suicidio.

Ti sei sempre lamentato che se fossi rimasto in America avresti potuto diventare uno scrittore come Nabokov.

Sì, e lo confermo.

Io aggiungo che, del tutto verosimilmente, saresti divenuto un altro Lubitsch. Basterebbe ricordare «Dora Nelson» e «Quartieri alti».
Lubitsch io l’ho ammirato sempre moltissimo.

«Piccolo mondo antioc» e «Malombra» sono i due film, insieme a «Daniele Cortis», ma in posizione più distanziata, che hanno fatto coniare il termine ‘calligrafismo’ ( Soldati scuote la testa)…lo so, lo so, questa definizione t’ha sempre fatto arrabbiare molto. Paradossalmente le tue opere più significative si rifanno alla letteratura. Molti furono i critici, e mi riferisco a De Santis soprattutto, che videro in questo rifarsi a Fogazzaro una sorta di disimpegno.
Se non ricordo male fu proprio De Santis, successivamente, a spendere una buona parola a proposito del paesaggio di «Piccolo mondo antico», un paesaggio non più pittoresco ma quasi ‘neorealista’.

Restano film contrassegnati da una finezza formale ineguagliata e dalla puntigliosità, propria di Visconti, di ricostruire ambienti e situazioni. In «Malombra», fra l’altro, la trasposizione letteraria si stempera, svanisce, sino a diventare il film opera autonoma, uno dei pochi casi in cui il cinema supera e va oltre il testo di riferimento.
Vedi, molti ritengono che Fogazzaro sia uno scrittore minore; io penso che sia invece modernissimo, universale, i suoi personaggi sono tormentati e combattuti tra peccato e morale, tra aneliti di speranza e la disperazione dello scetticismo. Pensando a girare Malombra avevo in mente queste considerazioni e io lo immaginavo già cinematograficamente.

Hai sempre sostenuto che il cinema è industria, non arte, al più un’arte ‘tipografica’. Bene, vorrei rileggerti quello che scriveva di te, nel ’53, Jean Cocteau: «Si rimane sorpresi dall’intelligenza che dirige il film ‘La provinciale’. L’insieme del film è un po’ Maupassant e addirittura Marcel Proust. Ma l’abilità del narratore cinematografico, l’economia dei dialoghi e dei gesti, salvano tutto. Ogni secondo ha forza senza ricorrere a una ‘trovata’…con una maestria davanti alla quale ci si inchina..» ( Soldati sorride e bofonchia qualcosa, quasi schermendosi). Perché hai smesso di fare cinema?
Perché era a Roma che si faceva cinema, e io non avevo più voglia di vivere a Roma.

(…)
Abbandonando la città, nel ’60, abbandona anche il cinema: il contratto che lo legava alla realizzazione di tre film praticamente si annulla, aveva perso il giro (è in Roma, tratto da Rami secchi, che Soldati spiega le ragioni della sua idiosincrasia per una certa romanità).
A rinunce simili è stato costretto già nel ’48, allorché il contratto settennale che lo legava a Selznick, ad Hollywood, venne di fatto annullato dal consolato americano che non aveva concesso il visto a Jucci, la nuova moglie, perché convivente con un uomo già sposato.
Le due città, che lo stesso Soldati considera come una delle sue opere migliori, è – come dice Farassino – «un’ autobiografia del cinema italiano»: il cinema nasce a Torino, a Torino muore e, come novella Fenice, rinasce a Roma.