Sognando serate di chiacchiere con Etty Hillesum
Memoria del Novecento La giovinezza e i turbamenti femminili di Etty Hillesum, morta ad Auschwitz: Elisabetta Rasy ne rilegge il Diario in un serrato confronto autobiografico. Dio ci vuole felici, da HarperCollins
Memoria del Novecento La giovinezza e i turbamenti femminili di Etty Hillesum, morta ad Auschwitz: Elisabetta Rasy ne rilegge il Diario in un serrato confronto autobiografico. Dio ci vuole felici, da HarperCollins
Più delle mani sono le braccia che agganciano lo sguardo. Nude e lisce, forti però morbide, sono due braccia femminili. I gomiti piegati compongono al centro della foto una sorta di triangolo, il destro raccoglie la luce della stanza e la trasforma in silenziosa energia; tra le spalle lo scorcio di una nuca, capelli arruffati da ragazza. Del corpo che immaginiamo inginocchiato vediamo poi solo un piede in penombra. Il resto è coperto da qualcosa che sembra un enorme brandello di carta da parati: forse proviene dalla parete cui aderiscono di palmo le mani della ragazza, le dita divaricate, il dorso paffuto che si inarca. L’idea è che lei stia uscendo da un guscio e spinga lontano da sé quella parete. Nelle parole di Elisabetta Rasy la protagonista degli autoritratti in bianco e nero di Francesca Woodman, cui ha dedicato l’ultimo pannello del suo Le indiscrete (2021), è una «donna misteriosa, che ama il proprio corpo e insieme lo teme». In questa foto del 1976, due anni prima del suicidio, la diciottenne Woodman si direbbe attribuire un significato più preciso alla sua «visione inedita» del «corpo femminile» e a ciò che rimase per lei «il mistero della paura». Lo scatto della ragazza che preme le mani contro la parete mentre sbuca dal suo guscio, con il corpo nudo però nascosto, somiglia a una riflessione sul potere della giovinezza e del talento femminile, anche sulle loro insidie, sulla fatica devastante, fatale a volte, di sostenerli entrambi.
Si tratta di una «combinazione», o di una «contraddizione» se vogliamo, che non è ignota al mondo espressivo di Rasy, ma che anzi lo abita con percussiva, appassionata vitalità. L’autoritratto della scrittrice da giovane, il cartone dell’adolescenziale battaglia ingaggiata con la tormentosa tirannia del corpo e insieme con la ferrea legge del talento affiora tra le pagine non di rado autobiografiche di molti suoi libri, da Posillipo (1997) a Tra noi due (2002), da L’estranea (2007) a Memorie di una lettrice notturna (2009) a Una famiglia in pezzi (2017). Perfino là dove lo statuto letterario adottato tenderebbe a escludere il racconto di sé, come in Ritratti di signora (’95) o in L’ombra della luna (’99) o ancora in Le disobbedienti (2019), lo sperdimento della giovinezza e il vago preannunciarsi della vocazione, la ricerca di una diversa identità femminile accendono la storia diventandone gli indispensabili fuochi tematici. Ha senso dunque che proprio su questo nodo Rasy scelga di costruire adesso Dio ci vuole felici Etty Hillesum o della giovinezza (pp. 157, € 18,00), con cui inaugura per HarperCollins la collezione «Scrittrici / Scrittori». Né stupisce che il volume si dischiuda sull’autrice mentre sfoglia vecchie foto in bianco e nero; tantomeno che un’osservazione sugli abiti, involucri da cui è esposto e celato il corpo femminile, allacci la bruciante esistenza della giovane ebrea olandese Etty Hillesum, vestita nei «lontani anni Trenta» in modo non diverso dalla liceale Rasy «prima che l’abbigliamento cambiasse drasticamente e il vestirsi diventasse un allegro travestirsi», alla cometa altrettanto breve e infuocata di Francesca Woodman, ragazza di quei più vicini anni settanta in cui «le giovani donne si vestono e travestono secondo un estro mobile». Solo raccontando la giovinezza – questo svela il bizzarro corto circuito scattato tra i due libri – sarà possibile narrare la storia drammatica di Hillesum, dire di lei l’amore verso la vita con quei turbamenti del desiderio e quel talento per la scrittura così vivi ancora oggi nelle pagine del suo Diario malgrado lei sia stata uccisa ventinovenne nel 1943.
«Le mie amiche del cuore, le poche rimaste nel ricordo, erano ragazze inquiete come Etty, che non sognavano né il classico cammino femminile di fidanzamento matrimonio famiglia e neppure, come sarebbe successo di lì a qualche anno, una precisa carriera, e sul loro essere femmine anziché maschi si ponevano molte domande, ma assai diverse da quelle che di lì a pochissimo avrebbe posto il femminismo» scrive Rasy indicando la prospettiva da cui ha scelto di affrontare la vicenda che narra e allo stesso tempo il percorso che nel suo libro si completa. L’unica strada per raggiungere Etty Hillesum, incontrata già in un capitolo di Memorie di una lettrice notturna, non è quella che si snoda fino ai mesi di Westerbork e di Auschwitz, dentro l’indicibile orrore in cui lei intenzionalmente sprofonda scegliendo di condividere la sorte del suo popolo; piuttosto l’altra, che si ferma al suo tempo comprensibile di studentessa. Qui Rasy potrà avvicinarla come «amica perfetta» e «maestra di giovinezza», quella «stagione infelice e spensierata» a cui Hillesum apparterrà per sempre. L’opzione narrativa non prevede per l’autrice solo il ritmico specchiarsi del proprio passato nell’immobile presente del Diario; implica l’uso di un registro, quello della «chiacchiera», che nell’opera d’esordio, La lingua della nutrice (1978), lei stessa collocava insieme al diario e alla lettera tra le forme primarie dell’espressione femminile. Oltre a fantasticare «serate di chiacchiere» con la protagonista, Rasy trova uno stile massimamente elastico, intimo, confidenziale per rivolgersi al lettore. Affollano il dialogo, che è anche un dialogo sull’abbandono e sulla perdita, numerose altre donne: narratrici come Katherine Mansfield o personaggi come la Micol di Giorgio Bassani; torna dalle Disobbedienti una pittrice straordinaria, Charlotte Salomon, morta incinta ventiseienne ad Auschwitz poco prima di Hillesum. Vale per tutte, non solo per la protagonista e per l’autrice, che «far coincidere l’esterno con l’interno, la vita interiore e le sue centrifughe attrazioni con la più centripeta vita esterna» rappresenti «il compito più duro della giovinezza». Intende il lettore, sospeso sulla corda di quell’«acrobatico equilibrio», il tono quasi sbalordito di chi narra. Gira la testa Rasy: anche le sue orme disegnano un destino femminile che ha trovato nella scrittura identità e salvezza dalle giovanili, incandescenti tentazioni dell’anima.
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