Sognando a occhi aperti sulle orme di Giuliano Scabia
A teatro «Beautiful creatures» de lacasadargilla, allestimento dedicato all’«anima vagante» del drammaturgo. Una mappa ingannevole e un percorso da inventare dove tutto è possibile
A teatro «Beautiful creatures» de lacasadargilla, allestimento dedicato all’«anima vagante» del drammaturgo. Una mappa ingannevole e un percorso da inventare dove tutto è possibile
È dedicato a Giuliano Scabia, immaginoso folletto che portava la sua poetica idea di teatro là dove non era aspettata, il crepuscolare Beautiful creatures allestito da lacasadargilla di Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni negli spazi del Fabbricone, a Prato. E dove altrimenti, se non qui, in questo luogo che fin dagli inizi si è dato a imprese fuori dagli usuali formati spazio-temporali. Sono cinquant’anni ed è bello festeggiare, ricordando le grandi creazioni di Ronconi e Peter Brook, le invenzioni di Massimo Castri e Federico Tiezzi. E in mezzo a loro ci sta bene idealmente anche Scabia, anima vagante. Che guidava chi voleva seguirlo in vagabondaggi attraverso boschi incantati tirandosi dietro grandi animali fiabeschi, un gorilla quadrumàno o un cavallo dal bel colore azzurro chiamato Marco. La prima immagine che viene incontro è proprio una foresta di tronchi calcificati che pendono nel vuoto al di sotto della gradinata. Poi varcata questa soglia immateriale, si passa nello spazio che si apre lì davanti. Possiamo definirlo un nudo palcoscenico?
TERRE DI LUPI, di lantanidi e ginestre, recita il sottotitolo. E ci si aspetta che tutti sappiano cosa sono i lantanidi, elementi chimici un tempo noti come terre rare e oggi in uso per certe applicazioni tecnologiche molto moderne (alla peggio chi non sa può cercare su wikipedia). Ma forse qui si allude piuttosto a realtà che si nascondono l’una dietro l’altra, come dice l’etimologia.
Un esperimento collettivo, ci dicono gli artefici. All’insegna del sogno, ma un sogno collettivo che però può essere vissuto solo individualmente. Di cui all’ingresso nel teatro, ancora accalcati nell’atrio mangiando i biscotti che qualcuno ha messo a disposizione, da uno schermo vengono spiegate le regole. Aprite gli occhi e varcate la soglia per osservare, ascoltare, fantasticare. Sostate in solitudine, costruite la vostra sequenza di avvenimenti. Da lì si parte per perdersi nello spazio che si stende sotto il manto di un cielo stellato. Muniti di una mappa che però è ingannevole come le accluse informazioni sui sette partecipanti – lo scrittore in crisi, il ballerino amatoriale, la cantante di strada, l’ex cacciatore di frodo, la donna dalla camicetta rossa e così via. Buone per contentare chi non è capace di immaginare.
L’aveva pur detto il prologo: tracciate un itinerario personale, non fatevi mai sedurre da facili soluzioni. Ben presto ti accorgi che altra guida non ti sarà data, che lo spettacolo (se così ancora vogliamo chiamarlo) devi fartelo da solo. Ciò che ci aspetta è un paesaggio brulicante di creature sospese tra il non ancora e il non più, ci avvertono. Ci sono dei tavoli e delle pedane, senza un ordine apparente, nel dispositivo visivo approntato da Maddalena Parise. Poche panche e cuscini dove sedere, se non si ha più voglia di girare. Un uomo consulta l’I Ching, il libro dei mutamenti, e prende appunti su un quadernetto. Un altro si aggira più frenetico con un fucile in mano. Una coppia balla un tango fra le poltroncine della gradinata, su cui sono esposti i reperti di una quotidianità divenuta inservibile. Chi ritorna per un momento nel foyer trova ora una donna seduta a un tavolo che gioca con una serie di piccole tessere, forse quelle dello scarabeo.
Si ascoltano piccoli dialoghi che non significano nulla ma forse sono anche quelli un linguaggio celato. Gli alberi non ci danno fastidio; gli alberi hanno fame, dicono. Oppure cantano «ho fame ho fame ho fame» sulle note delle «parole parole parole» di una canzone di Mina. Una racconta i suoi sogni di violenze domestiche. Tutti insieme rotolano a terra o ballano l’hully gully dei Watussi di Edoardo Vianello, un reperto anche quello di un’epoca lontanissima, quando ancora dire di «altissimi negri» non dava scandalo.
CONTIGUITÀ, incidenti, inclinazioni, assonanze, polifonie e radici che si toccano – sembra che sottovoce mi suggerisca Lisa Natoli, ma forse è sogno anche questo. La scena rimane nel tenue chiarore degli ultimi barlumi del crepuscolo e invita a entrare in un altro mondo, in un’altra verità, come agli orli della vita. Dove tutto diventa possibile. Insomma, reso il dovuto omaggio a Scabia, viene il sospetto che dietro a queste Beautiful creatures ci siano i teatrali incantesimi di un altro mago che attendeva nascosto l’irrompere dei giganti della montagna. Li lasciamo tutti addormentati i sette interpreti (sono Giacomo Albites Coen, Lorenzo Frediani, Tania Garribba, Anna Mallamaci, Emiliano Masala, Alice Palazzi e Francesco Villano). Fuori è già buio.
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