«Se ascolto, sento la vita fuggire/ sempre più rapida ora./ Quei passi quieti dietro –/ morte, sei tu./ Prima eri lontana –/ mi eri troppo cara./ Ora che non ho più nostalgia,/ sei qui, ora». Karin Boye è la madre nobile del modernismo svedese, una poetessa inquieta, attratta dalla mistica, portata a confrontarsi con la lezione di Budda, di Cristo, di Nietzsche. Il suo itinerario breve di esistenza, a cui ha posto fine nel 1941 a quarantuno anni, fu nel segno del disagio, della ricerca di sé, per cui intraprese un ciclo di psicoanalisi a Berlino, dopo il matrimonio con il poeta Lejf Bjork, per accettare la propria omosessualità, a lungo rimossa. Recentemente sono uscite in Italia una raccolta di Poesie curata da Daniela Marcheschi (Le Lettere, 2018) e il romanzo Crisi (traduzione di Enrico Tiozzo, Aracne Edizioni, 2017) del 1931, in cui narra la propria turbata visione della fede, dopo un episodio complesso di dubbio e tormento.

OGGI a distanza di molti anni dalla prima edizione nel 1993, Iperborea ripropone il notevole romanzo Kallocaina (traduzione, assai ben compiuta e nota di Barbara Alinei, con una postfazione di Vincenzo Latronico, pp. 251, euro 17,50). Un’opera uscita nel 1940, quando la guerra in Svezia era lontana, garantita dalla neutralità del paese. Qui l’autrice aveva rifuso memorabilmente la propria esperienza di viaggio in Russia nel 1928 e nella Germania weimariana del 1932, poco prima della presa di potere di Hitler. Non interessata specificamente alla politica, è tra gli scrittori più potenti nella rappresentazione di una società dittatoriale senza speranza. La scelta dell’autrice nella narrazione è la prima persona: parla Kall l’inventore di una droga somatopolitica che ha inventato per compiacere i fini dello Stato Mondiale, un ente che vuole tutti i propri cittadini trasformati in insetti operosi in un enorme alveare, che ciecamente deve garantire il funzionamento della macchina della società e delle guerre che le autorità inventano continuamente per mantenere la propria forza.

Il narratore è fanatico: egli inventa la droga potente, che costringe tutti a dire la verità, per poter controllare anche l’ultimo simulacro di libertà nell’intimo che rimane ai soggetti di uno stato totalitario. L’autrice riesce a costruire magistralmente una tensione tremenda in una sequenza di ambienti anonimi che alludono (come nel classico e terribile Noi di Eugenj Zamjatin, 1924 e nel quasi coevo Blocchi dell’olandese Ferdinand Bordewyjck, 1931, uscito da Bompiani nel 2022) a una architettura razionalista vissuta come profezia della alienazione più totale dei sentimenti e delle identità.

NELLA ESISTENZA totalitaria la chimica è la materia più diffusa, uno dei pochi mezzi per poter lasciare il proprio nome alla storia. Kall smania perché il suo ritrovato venga diffuso in tutto il mondo, anche se i suoi superiori sono all’inizio incerti. Il suo coordinatore, Rissen, avanza dubbi, si rende conto delle profonde implicazioni etiche di quella ricerca, pone quesiti. Sullo sfondo di un duello apparentemente teoretico su scienza e stato, sta una rivalità sentimentale e sessuale che coinvolge la moglie del narratore, Linda, fattrice dei suoi figli, che presto vengono staccati dalla famiglia per diventare in breve tempo servitori dello stato totale e dei suoi infiniti bisogni. Fatalmente il personale prende il sopravvento sul politico; l’inventore non può fare a meno di provare il proprio siero sulla consorte per avere la certezza di un tradimento che gli logora il cuore e la mente.

Tutto precipita finché il testo, presentato come un manoscritto, si conclude amaramente con la nota del censore che denuncia il contenuto immorale dello scritto, conservato per testimoniare un’epoca di decadenza dell’organismo statale. Karin Boye è magistrale nella descrizione del dubbio che si insinua nello scienziato, quando nel corso di un interrogatorio incontra una donna che parla di una città nel deserto, di antiche mitologie e di un profeta-eroe, Reor, che raduna nel suo nome adoratori di un tempo antico del mito.
L’epigrafe del romanzo è da La terra desolata di T. S Eliot, che l’autrice aveva tradotto in svedese con Erik Mesterton: il poeta torna come eco nelle scene più visionarie di questa spietata e dolente rapsodia del totalitarismo.