Rubriche

Soggezione, sfruttamento e omertà

Verità nascoste «Le relazioni di sfruttamento sono relazioni di dipendenza. Fondate sull’assenza di reciprocità, sono concepite da chi le impone, e percepite da chi le subisce, come prive di alternativa. Non è in gioco solo la paura della ritorsione, ma anche quella, più insostenibile, di perdere il proprio posto nel mondo»

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 14 settembre 2019

Angelo Mastrandrea: «Caro Sarantis, prendo spunto da una tua recente rubrica, dove citi la condizione delle cucitrici di scarpe per la grandi marche per raccontarti una cosa che non mi era mai accaduta. Denunciando il lavoro domestico al nero in un paesino del sud Italia, è accaduto che mi sono trovato contro non solo i padroncini subappaltatori ma le stesse lavoratrici pagate 50 centesimi al paio e in fin dei conti l’intera opinione pubblica locale. Mi è sembrata la reazione di una comunità impaurita e ripiegata su se stessa, assuefatta a un sistema che non si pensa possa cambiare. Mi viene in mente Rocco Scotellaro e il suo racconto della “zona grigia del risveglio contadino” nel Sud del dopoguerra, quel “qualunquismo povero fatto di impulsi e reazione non organizzati”. Oggi mi pare che il neoliberismo stia riuscendo a fare quello che neppure al fascismo era riuscito completamente: far credere agli sfruttati che sono sulla stessa barca degli sfruttatori. Nemmeno a dirlo, alle elezioni europee di maggio la Lega è risultata il primo partito. Tu cosa ne pensi?»

Sarantis Thanopulos: «Caro Angelo, la cosa è sconcertante, ma non incomprensibile. Queste donne sono abusate, ma quando le vittime dell’abuso non hanno la possibilità di opporsi, sono inermi perché il coltello ce l’ha dalla parte del manico chi abusa di loro, si identificano con lui (aggressore, invasore, sfruttatore). Attaccano inconsciamente la parte desiderante di sé perché la vivono come fragile e la disprezzano per la sua debolezza. Si difendono dal loro desiderio, reprimendolo, e si sentono, in un modo alienante, al sicuro. Gioca in tutto questo un ruolo importante l’inerzia: l’assoggettamento al bisogno, l’inseguimento della liberazione dalle tensioni e della stabilità che ferma il movimento della vita. Lavorare tutto il giorno, come pedine spersonalizzate di una catena di produzione ripetitiva, crea anestesia. Con gli sfruttatori si stabilisce un’uniformità psicologica: l’eccesso di venalità, materialità di questi ultimi, inerzia ugualmente la psiche. Denunciare lo sfruttamento in presenza di un’impotenza del desiderio può inimicarti le vittime. Tuttavia, è il primo passo per rompere il loro assoggettamento».

Angelo Mastrandrea: «Credo che giochi un ruolo fondamentale anche la paura. Una lavoratrice che cuciva borse per 10 euro al giorno, quando le ho chiesto perché non denunciava, ha risposto così: “Sai com’è, da noi se si viene a sapere che diciamo queste cose poi nessuno ci chiama a lavoro. Capisci? Per questo non posso dire niente”. Mi pare che quel “se si viene a sapere” indichi un sistema di controllo invisibile ma ramificato, che protegge lo sfruttatore. La sanzione per chi parla è l’isolamento nella comunità. Il regista Andrea D’Ambrosio mi ha detto che, quando doveva girare “Due euro l’ora”, ispirato alla morte di due lavoratrici al nero (una minorenne) nel rogo di un materassificio clandestino nel salernitano, è stato costretto a spostare il set a causa dell’omertà diffusa».

Sarantis Thanopulos: «La paura è, in effetti, fondamentale. Le relazioni di sfruttamento sono relazioni di dipendenza. Fondate sull’assenza di reciprocità, sono concepite da chi le impone, e percepite da chi le subisce, come prive di alternativa. Non è in gioco solo la paura della ritorsione, ma anche quella, più insostenibile, di perdere il proprio posto nel mondo. Un mondo visto dalla prospettiva dello sfruttatore, costruito sul diritto disumanizzante del più forte (del più avulso dal desiderio), che rende le comunità soggiogate omertose. La denuncia, amica della vita, che squarcia il velo dell’omertà, può andare incontro a diffidenza e ostilità, ma serve a incrinare il senso di “normalità” creato dalla psicologia della soggezione».

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