Sociologia teatralizzata di Fede
A Trento, Castello del Buonconsiglio, "Fede Galizia. Mirabile pittoressa", a cura di Giovanni Agosti, Luciana Giacomelli e Jacopo Stoppa Prima mostra dedicata alla «mirabile pittoressa», che operò fra Cinque e Seicento, dai natali trentini, di fatto milanese: relativa la qualità dei dipinti, ma spicca un’effervescente scena sociale. Il suggestivo allestimento in tessuto specchiante anima un’opera dalle fortune internazionali
A Trento, Castello del Buonconsiglio, "Fede Galizia. Mirabile pittoressa", a cura di Giovanni Agosti, Luciana Giacomelli e Jacopo Stoppa Prima mostra dedicata alla «mirabile pittoressa», che operò fra Cinque e Seicento, dai natali trentini, di fatto milanese: relativa la qualità dei dipinti, ma spicca un’effervescente scena sociale. Il suggestivo allestimento in tessuto specchiante anima un’opera dalle fortune internazionali
«Mirabile pittoressa» è una delle espressioni utilizzate nel Ritratto di Milano, la prima guida della città (pubblicata nel 1674), per descrivere Fede Galizia, «la cui fama volando a Rodolfo imperadore fece che delle sue opere alcune venissero riposte tra i più cospicui quadri che si tenesse un tal monarca».
È solo uno dei molti riferimenti letterari a quest’artista, tra citazioni e componimenti poetici che ne lodano la pittura. Fede è «eccellentissima», «tanto rara», «virtuosissima» nell’arte e nella vita, la sua pittura è così elegante da fare invidia (persino agli uomini), e via di seguito…
La prima mostra che le è dedicata, Fede Galizia Mirabile pittoressa, a cura di Giovanni Agosti, Luciana Giacomelli e Jacopo Stoppa, è al Castello del Buonconsiglio di Trento fino al 24 ottobre. L’esposizione, malgrado il titolo, non applica solo una categorizzazione di genere. Ma Fede è un’artista che in vita raggiunge un successo internazionale e, tra le domande che ci si devono porre dall’osservatorio odierno, c’è anche questa: quanto ha pesato, nel percorso dell’artista, il suo essere donna? E, nel raggiungimento della fama, è stato più un fardello o un vantaggio? In quel mondo prettamente maschile, delle donne c’erano: spesso dilettanti, monache e, quasi sempre – e Fede non fa eccezione –, figlie d’arte. A loro erano precluse alcune possibilità come quella, tanto ovvia per gli artisti di sesso maschile, di esercitarsi nello studio del nudo dal vero, imprescindibile per imparare a gestire scene complesse.
Eppure tra Cinque e Seicento alcune figure emergono, conquistano notorietà, si spostano e lavorano per committenti importanti o reggono le sorti delle botteghe famigliari. Poche di queste pittrici antiche hanno però la forza di sostenere, oggi, una mostra monografica: le loro opere non corrispondono quasi mai ai nostri odierni canoni di qualità. Ci si può interrogare su quanto influiscano il gusto, la cultura, il contesto, nel dare o meno una patente di qualità a un’opera, ma viene da pensare entrassero in gioco anche altri fattori. Una donna pittrice che si muoveva a buoni livelli in un mondo di uomini, come appunto Fede, era una rarità che non poteva, per esempio, non attirare le attenzioni di Rodolfo II, «mecenate di luminari e di ciurmadori», per dirla con il Ripellino di Praga magica. Le si poteva, quindi, scusare qualche tavola un po’ sgrammaticata? E magari stupirsi per i brani migliori, frutto di abilità coltivate grazie all’esercizio, nonostante la condizione di partenza in assoluto svantaggio.
Da qui, inizia la mostra. La questione femminile c’è, e non si può ignorare, ma c’è molto altro da mettere in campo. Si può passare così, dopo uno sguardo ai dipinti delle colleghe Sofonisba Anguissola, Plautilla Nelli eccetera, alle sale successive, e ad altre domande.
La mostra è montata in un percorso che attraversa le stanze del secondo piano del Castello decorate da affreschi, stucchi e specchi, ma è isolata in spazi, perlopiù ellittici, circoscritti da pareti di tessuto specchiante. Ogni spazio corrisponde a una sezione, come è evidente anche dal titolo che corre nelle cornici all’apice del tendaggio. L’allestimento, ideato da Alice De Bortoli, è suggestivo. Trova riferimenti al teatro, al cinema, all’effimero delle sfilate di moda o dei saloni del mobile. Piaccia o non piaccia (e mi metto tra i visitatori ammirati), funziona: le tende si aprono su un mondo che si struttura nei rapporti tra gli oggetti, e il tessuto, apparentemente mobile, isola più di un muro vero e proprio. Al di là di quello, come a teatro, nei tendoni del circo o nella Loggia di Twin Peaks, il tempo scorre in modo diverso.
Avanzando, si torna all’origine di questa storia: alla famiglia Galizia, fatta di oriundi cremonesi di stanza a Trento in un momento in cui la città, per via del Concilio, è tutt’altro che secondaria. Nunzio, padre di Fede, trova però più occasioni di lavoro a Milano; quindi il trasferimento in pianura. Fede, se è già nata, è ancora una bambina. La città è un centro di produzione del lusso, e a quel mercato si rivolge Galizia: come ideatore di ventagli resi preziosi dalla miniatura, di ricercatissime microsculture in pasta muschiata (cioè ricavata dalle secrezioni del mosco), incisioni, costumi teatrali eccetera. Insomma, Nunzio si ambienta rapidamente in quel contesto dove le sue capacità si prestano a mille diversi impegni, dove le attuali ripartizioni tra arti maggiori e minori saltano, dove il lusso, i gioielli, i profumi, si confondono nella nebbia e si mescolano all’odore della vita ritmata da feste, parate, processioni e commerci, prima che la peste cancelli il superfluo.
Fede è attiva sulla scena milanese, probabilmente giovanissima – la sua data di nascita dovrebbe cadere intorno al 1570, o poco dopo –, già nel 1587, quando Lomazzo descrive la «figliuola» del miniatore trentino Nunzio come pittrice rara. Si specializza nella copia di alcuni quadri celebri e in alcune composizioni che replica più volte, con poche differenze, anche a distanza di diversi anni. Sono modalità produttive che tendiamo a eludere o a giudicare negativamente, presi da un’idea romantica dell’artista, ma erano una parte, in alcuni casi tutt’altro che secondaria, del lavoro del pittore antico. Così in una delle sezioni si squadernano quattro Giuditta con la testa di Oloferne quasi uguali una all’altra, con l’eroina biblica ricoperta di un vestito lussuosissimo, con gioielli così appariscenti da sembrare delle patacche. La «pittoressa» si è concentrata sulle minuzie con una freddezza analitica fiamminga, con una pazienza da miniatrice che le veniva certamente dall’esperienza con il padre. Forse dai bauli di Nunzio, disegnatore di vestiti e tessuti, provenivano anche i costumi dei suoi personaggi.
I contemporanei l’hanno celebrata anche come ritrattista. Ovviamente, non è l’unica. Perché la realizzazione di ritratti si conciliava con la «diligenza», l’«accuratezza» che si attribuiva alle artiste donne, all’intimità del loro procedere senza picchi umorali, protette da una dimensione domestica (o monastica). Così, per esempio, l’Anguissola o Lavinia Fontana.
Fede ha di suo una spiccata capacità nella resa mimetica del dato naturale, evidente in ritratti celebrati come quello di Paolo Morigia, che è certamente tra i suoi pezzi migliori. Le si apre così la strada per due generi antitetici: la natura morta e la pala d’altare. Quest’ultimo, per nulla scontato: è tra le prime pittrici a cimentarvisi, a Milano e non solo. Anche qui, il ricchissimo catalogo dà conto di un’addenda (napoletana). Il libro, uscito a mostra già aperta ed edito dallo stesso Castello del Buonconsiglio, fatica a contenere una quantità di notizie, bonifiche, vicende di opere e persone sondabili grazie al regesto e all’indice dei nomi. In fondo, rispecchia la mostra. Ogni saggio è un atto di questo spettacolo su cui si aprono e si chiudono i sipari riflettenti; ogni scheda si dischiude a confronti, trattiene, a malapena, i significati e la storia degli oggetti esposti in un saliscendi continuo di secoli di storia occidentale: ieri e oggi ma anche noi e loro, fatti microscopici e incredibili cambiamenti di scena. La lettura non è facile, e molto è dedicato a chi ha familiarità con la materia. Ma ben venga, ogni tanto, una rappresentazione della complessità in un presente che, rifiutandola così spesso, si assoggetta ai bisogni della pancia e non del cervello.
Nell’ultimo ambiente della mostra si squadernano le nature morte. Lasciano trasparire alcune problematiche: nella reiterazione di alcuni brani, nella qualità della pittura che cambia da un’opera all’altra, da un dettaglio all’altro, si intravedono modalità esecutive che sfruttano, come per le Giuditte, i mezzi della serialità; la mano, come nei ritratti e nelle pale, è qua e là più stanca, più corsiva, salvo riprendersi nelle infinite tonalità di una prugna o nell’ossidazione di una mela cotogna.
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