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Sociologia dei movimenti collettivi

Sociologia dei movimenti collettiviLa maratona di New York che si è corsa domenica 3 novembre

Sport Il rapporto tra attività fisica, ideologie del Novecento, identità nazionali e politiche del welfare in Europa. Una storia segnata da pulsioni progressiste e derive reazionarie

Pubblicato circa 11 anni faEdizione del 9 novembre 2013

Il ruolo dei movimenti sportivi di massa in Europa e i processi di nazionalizzazione, lo sport come arena politica, il rapporto tra lo sport e le ideologie del Novecento, lo sport per tutti come caposaldo delle politiche del welfare in Europa. Ne parliamo con Nicola Porro, professore di Sociologia all’Università di Cassino e del Lazio meridionale, già presiedente dell’Associazione europea dei sociologi dello sport. Porro ha dedicato numerosi lavori al fenomeno sportivo, ha scritto insieme a S. Martelli, Manuale di sociologia dello sport e dell’attività fisica (Franco Angeli, 2013). E’ autore di Movimenti collettivi e culture sociali dello sport europeo (Euro 15, Bonanno editore).

Perché descrivi l’esperienza sportiva europea con la categoria sociologica dei movimenti collettivi?

Le organizzazioni sportive di massa generano identificazione, producono conflitti, partecipano a mobilitazioni politiche. Un fenomeno non circoscritto solo alla competizione e tutt’altro che politicamente asettico.

Qualche esempio fra quelli analizzati nella tua ricerca sullo sport europeo?

Già a cavallo fra Settecento e Ottocento l’attività fisico-motoria viene elaborata come profilassi sociale della povertà. Le ginnastiche scandinave, ad esempio, mirano a prevenire le patologie indotte dal clima rigido e dall’alimentazione insufficiente. Un’esperienza che concorrerà più tardi alla costruzione di un avanzato sistema di Welfare. I Turnen tedeschi e il Sokol in area slava vanno invece collegati ai processi di nazionalizzazione ottocenteschi. I Turnen di Jahn, un ginnasiarca visionario seguace del filosofo Fichte, avverso al professionismo e allo sport competitivo ‘inglese’, fecero del corpo disciplinato degli atleti una metafora della comunità politica. Per Mosse rappresentarono anche un pilastro sociale dell’unificazione politica della Germania. Il Sokol si costituì invece a Praga nel 1862 associando patriottismo ceco, ideale panslavista ed educazione laica. Protagonista della lotta anti-asburgica per l’indipendenza nazionale, combatterà prima l’espansionismo nazista e poi la dominazione sovietica. I suoi raduni di massa, gli Slety, fornirono tuttavia nel periodo comunista l’imprinting alle Spartachiadi, che sino al 1952 rappresentarono l’alternativa ‘proletaria’ all’olimpismo borghese. Forme di associazionismo sportivo ispirate a ideali patriottici e civici non mancano nella stessa Italia risorgimentale, come nel caso del movimento garibaldino. L’ultimo capitolo del lavoro è dedicato alla promozione sportiva italiana, gemmata dal collateralismo politico e religioso del secondo dopoguerra.

In passato lo sport è stato percepito dalla sinistra come “oppio dei popoli” o strumento del potere. In che senso lo descrivi come una arena politica?

Quello che ai primi del Novecento fu chiamato ‘antisportismo socialista’ costituisce un fenomeno carsico della sinistra europea, ma sempre fortemente minoritario. Il modello dell’arena politica si ispira invece alle teorie sociologiche del conflitto, studiando i movimenti sportivi come attori che operano entro uno spazio sociale attraversato da interessi in competizione, negoziazioni di potere e dinamiche simboliche. In qualcuno dei casi osservati sostengono e persino promuovono forme esplicite di mobilitazione politica. È una storia segnata da pulsioni progressiste e derive reazionarie, che meriterebbe di essere approfondita.

Perché negli ultimi decenni le pratiche sportive antagonistiche, rispetto agli ordinamenti sportivi ufficiali, non sono state oggetto di studi?

L’analisi del caso nazionale britannico, proposta dalla sociologia storica, ha generato l’illusione che esistesse un modello universale di sportivizzazione e che questa coincidesse con la formazione di istituzioni specializzate, come i comitati olimpici e le federazioni di disciplina. Altre esperienze, altrettanto importanti, sono state relegate nel cono d’ombra. Le narrazioni campionistiche dei grandi media hanno fatto il resto, oscurando lo sport dei cittadini o declassandolo a mero folclore.

Che rapporto istituisci fra lo sport europeo, le ideologie del ‘900, figlie dell’industrializzazione e delle nazionalizzazioni, e la domanda dei diritti sociali?

La filosofia del risultato misurabile e del record costituisce una perfetta metafora del produttivismo industriale. I totalitarismi del Novecento hanno usato il campionismo in funzione della celebrazione nazionalistica e le associazioni sportive di regime come strumento di controllo sociale. Il racconto cinematografico delle Olimpiadi di Berlino da parte di Leni Riefenstahl è una testimonianza esemplare di estetizzazione delle ideologie reazionarie. La contemporanea sperimentazione espressiva del movimento è però una risposta all’estetizzazione fascista della corporeità: abbattendo le barriere linguistiche, favorisce l’inclusione e la contaminazione fra culture. Lo sport per tutti e a misura di ciascuno, considerato ovunque in Europa un caposaldo del welfare, promuove prevenzione sanitaria, educazione alla socialità, pratiche di inclusione.

Dal 1998 al 2005 sei stato presidente di un grande movimento sportivo di massa, come l’Uisp. Come ricordi questa esperienza?

Non provenivo dalla dirigenza associativa e fui il primo presidente eletto in un congresso in competizione con altri candidati. Durante la mia presidenza la Uisp consolidò il suo primato fra gli enti di promozione, superando il milione di soci e accreditandosi fra le associazioni leader del nascente Terzo settore. Le aspettative riposte nel centrosinistra al governo, per una riforma dello sport che mettesse fine al paradosso di un Paese leader nel medagliere olimpico e fanalino di coda nella pratica diffusa, furono però in parte deluse. A partire dal 2001 subimmo l’attacco forsennato scatenato contro il non profit dai governi di centrodestra, interessati solo, come il loro capo, allo sport professionistico spettacolare. La crisi finanziaria e organizzativa del Coni ebbe ripercussioni sul nostro movimento, senza produrre però quella separazione consensuale dello sport di cittadinanza dall’ente olimpico che sembrava matura e che ci avrebbe, seppur tardivamente, allineato ai modelli prevalenti in Europa.

Rimproveri all’Uisp di essere ancora seduta al tavolo del doppio collateralismo, vittima e fruitore di finanziamenti del Coni.

È una critica e in parte un’autocritica. Già nei primi anni Novanta avevamo compreso l’innovazione politica e culturale dello sport per tutti europeo, la crescente differenziazione delle pratiche e la conseguente necessità di una riforma radicale del sistema. Lo sport di cittadinanza andava inserito nell’agenda del welfare, promuovendone l’autonomia organizzativa e restituendo il Coni, che amministrava a favore della promozione risorse dello Stato, alle responsabilità che sa assolvere efficacemente: valorizzare i talenti tecnici e difendere i colori nazionali nella competizione agonistica internazionale. Il nostro progetto non aveva nulla di eversivo. Tuttavia non incontrò soltanto l’ostilità prevedibile dei governi di centrodestra. Si saldò un fronte che andava dai nostalgici della diroccata ‘casa comune dello sport’ ad ambienti degli stessi enti di promozione, timorosi di perdere i modesti benefici derivanti dal regime di scambio politico fra partiti e sistema sportivo. Resistenze serpeggiarono persino in ambienti Uisp. Ci mancò la forza di rompere la tenaglia a rischio dell’isolamento. La vertenza aperta nel 2002 con la Carta dei princìpi dello sport per tutti fu progressivamente depotenziata negli anni successivi. Le sue ragioni rimangono però attuali e andrebbero rilanciate senza timidezze.

Come vedi il futuro dei movimenti collettivi sportivi nei prossimi anni in Italia e in Europa?

Si delineano tre tendenze non in opposizione fra loro. Una affonda radici nel tradizionale sport amatoriale di competizione. Un’altra si orienta a un’offerta non profit di servizi specializzati per il ben-essere. Cresce però anche un associazionismo di cittadinanza che ha per partner privilegiati i movimenti per l’ambiente, i diritti e la qualità della vita.

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