Cultura

“Socialist Register”, una rivista oltre la gabbia del presente

“Socialist Register”, una rivista oltre la gabbia del presenteImmagine di Ralph SteadMan, tratta da "American Illustration"

Tempi moderni Per festeggiare mezzo secolo di attività, «Socialist register» pubblica un annuale ricco di analisi sul capitalismo globale

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 26 giugno 2014

Nel 1960 la «New Left Review» pubblicò una lettera aperta di Charles Wright Mills, che aveva appena pubblicato L’immaginazione sociologica un classico delle scienze sociali novecentesche. In quello scritto il grande sociologo statunitense, che non aveva mai nascosto la sua ammirazione per Marx e le sue opinioni politiche radicali, invitava i compagni britannici ad abbandonare la «metafisica del lavoro», cioè l’eredità del «marxismo dell’età vittoriana» che legava la trasformazione sociale all’azione della classe operaia nei punti alti dello sviluppo capitalistico. La rivista era appena nata, dalla fusione di due precedenti pubblicazioni (che oggi si consultano online presso: http://www.amielandmelburn.org.uk/archive_index.htm) e, più in generale, di due orientamenti, anche generazionali: i comunisti dissidenti dopo il 1956 e i giovani studenti socialisti di Oxford, le due principali matrici della cosiddetta «nuova sinistra» britannica. La questione del capitalismo «maturo» e della «società del benessere» era al centro sia della critica alla cultura dominante nel partito laburista, sia dei dibattiti interni alla New Left. L’analisi di classe era il pomo della discordia, anche all’interno della rivista, fra approcci strutturali e culturali – al plurale, perché anche i «culturalisti» erano divisi: Stuart Hall e Edward Thompson non la pensavano allo stesso modo. Con la direzione di Perry Anderson la «New Left Review» assunse un ambizioso profilo intellettuale, di dialogo con il marxismo «continentale», ma le discussioni interne su storia e politica di classe (come il celebre, infuocato dibattito fra Anderson e Thompson), portarono alla nascita di una nuova pubblicazione.
Sono queste le origini del «Socialist register», ideato e a lungo diretto da Ralph Miliband (1924-1994). Figlio di una famiglia polacca emigrata in Belgio, con l’invasione nazista era fuggito in Inghilterra con il padre Samuel, un artigiano già militante del Bund, il partito socialista dei lavoratori ebrei. Dopo la guerra si era laureato alla London School of Economics ove avrebbe lavorato fino agli anni Settanta. Nel 1961 aveva pubblicato Parliamentary Socialism (tradotto come Il laburismo dagli Editori Riuniti nel 1964 – in italiano si leggono anche Lo Stato nella società capitalistica e Marxismo e democrazia borghese, prontamente tradotti da Laterza nel 1970 e 1978, ma da allora non più ristampati), una serrata requisitoria contro il «revisionismo» del Labour Party, ma nel giro di qualche anno, data anche l’esperienza dei governi Wilson, avrebbe rinunciato all’idea di cambiarne la linea dall’interno: paradossalmente, i suoi due figli Ed e Dave si sono contesi qualche anno fa la direzione del partito.

Genealogia di una rivista

Il primo «Socialist Register» uscì nel 1964, nel nome di un più stretto nesso fra analisi marxista e politica, una politica che avrebbe dovuto essere prioritariamente una «politica di classe», con il lavoro al centro e un forte riferimento alla necessità dell’organizzazione e al socialismo come progetto.
Queste caratteristiche hanno accompagnato il «Socialist Register» per mezzo secolo, come mostrano gli studi raccolti nel suo cinquantesimo volume. La genealogia della rivista è riepilogata da Madeleine Davis, mentre la sua lunga coerenza ai principi ispiratori è riassunta da un denso contributo di Leo Panitch, uno degli attuali co-direttori, autore nel 2012, con Sam Gindin di The Making of Global Capitalism (per una presentazione italiana vedi http://znetitaly.altervista.org/art/8166): origini britanniche, ma sguardo spalancato sul mondo sin dai primi numeri, con svariate collaborazioni internazionali, fra le quali anche quelle di molti italiani, da Giovanni Arrighi a firme note ai lettori di questo giornale, come Lucio Magri e Rossana Rossanda. A scorrerne gli indici (http://socialistregister.com/index.php/srv/issue/archive) si resta colpiti dalla tempestività delle analisi e degli aggiornamenti: la critica della socialdemocrazia, dello stesso Welfare e delle politiche keynesiane; la diagnosi della globalizzazione neoliberale e del «nuovo imperialismo»; la centralità della classe e l’analisi del lavoro su scala globale; i contributi del femminismo socialista e dell’ecologismo radicale; l’attenzione ai movimenti di protesta e alle loro strategie.

Lo sguardo sul presente

La qualità dei contributi più recenti si può apprezzare anche in lingua italiana, attraverso un’antologia dai fascicoli pubblicati fra 2001 e 2008, meritoriamente realizzata da Punto Rosso. Nel 2013 un ricco seminario a Toronto sui mutamenti nella composizione di classe e nelle forme del potere politico ha posto le basi per due nuovi annali, il primo dei quali, Registering Class,è già disponibile e rappresenta una lettura salutare, a fronte delle miserie del dibattito politico italiano e dei rovelli di quel che resta della nostra sinistra.
A parte i profili storici della rivista che chiudono il volume, le oltre trecento pagine dell’annale, raccolgono tre ordini di contributi, sulla classe lavoratrice, sui capitalisti, sull’analisi e proposta per il presente. Il fascicolo si apre con un saggio di Gupta sulla classe operaia dei Walmart (1,3 milioni di persone solo negli Usa), figlia della rivoluzione logistica dei «centri di distribuzione», che taglia i prezzi, ma senza che la riduzione compensi la combinazione di decurtazioni salariali e incrementi di spese per sanità, istruzione, trasporti e casa. L’uso massiccio di perma-temps, lavoratori precari part-time a vita, l’assenza di orari fissi e il diritto del lavoro statunitense rendono debole queste figure, ma il loro malcontento si rivela nelle interviste raccolte e nelle ricorrenti azioni sindacali. Altri due saggi criticano alcuni sviluppi dell’analisi di classe: da un punto di vista storico, Palmer riconduce la precarietà alla proletarizzazione, come espropriazione e sfruttamento, e critica apertamente le posizioni di Guy Standing (Precari, il Mulino, recensito su queste pagine da Andrea Fumagalli il 19 ottobre 2012); Huws analizza invece il lavoro digitale in un quadro di chiarificazione teorica su lavoro, salario e sfruttamento, insistendo sulla relazione del lavoro immateriale con basi materiali, sulla natura di rendita o capitale commerciale del «lavoro del consumatore» e sulla centralità ed espansione del lavoro produttivo di plusvalore.

Tra locale e globale

Contributi molto articolati sono riservati al polo opposto della produzione, attorno alla questione centrale dell’esistenza e autonomia di una «classe capitalistica globale». Tutti gli autori, con diversi accenti, concordano sul radicamento regionale o nazionale anche delle frazioni più transnazionali dei detentori del capitale, evidenziata dalle ricerche sulla «struttura del potere» che analizzano gli organismi dirigenti delle principali imprese (per un’introduzione: darkwing.uoregon.edu/~vburris/whorules/index.htm). Le ricerche empiriche mostrano che finanziarizzazione e internazionalizzazione dell’accumulazione non coincidono con una «formazione di classe» svicolata da relazioni sociali territorializzate. È da notare che comune a questi studi è l’insistenza su ruolo della politica nella costruzione delle gerarchie sociali e nella crescita delle diseguaglianze, contro la loro presunta «naturalità» tutta economica. Da cui discendono anche le trasformazioni nell’uso degli apparati pubblici (come l’esternalizzazione delle funzioni statali) e le difficoltà egemoniche, destinate a produrre l’usura dei «ponti» transnazionali fra classi dominanti e, ora sotto gli occhi di tutti in Europa, una crisi di legittimità delle politiche di austerità. Analisi dettagliate sono riservate anche al caso brasiliano, con due contributi complementari e parzialmente discordanti: se Fontes e Garcia sottolineano le contraddizioni di un nuovo «capitalismo imperiale», sorretto dal credito pubblico (un volume superiore a quello del Fmi) ma senza controllo pubblico sull’economia, Saad-Filho e Morais insistono sulla basa di massa dei governi Pt, prodotta dalla spesa sociale che riduce le disegueglianze, ma crea scontenti e aspettative crescenti, evidenti nei moti del giugno 2013.

In difesa dell’universalismo

Il confronto sul caso brasiliano conduce così agli interventi più propositivi: Chibber critica la debolezza teorica della prospettiva postcoloniale, che si sbarazza di Lumi e marxismo per il loro presunto cattivo universalismo, ma non riesce così a cogliere l’universalizzazione dell’interdipendenza antagonistica fra capitalismo e classe lavoratrice; MacDonald esamina il ruolo dei sindacati statunitensi nella produzione di spazio urbano sottomesso alla logica del capitale, che cristallizza la frammentazione dei lavoratori e dismette l’idea stessa di politica pubblica; Murray torna infine sul ricorrente dilemma del «che fare?» nei confronti dei partiti maggioritari di quella che fu la sinistra, tema che ritiene mal posto, a fronte della necessità prioritaria di ricostruire un movimento operaio, con campagne unitarie e costruite dal basso contro le politiche di austerità e contro le guerre imperiali. A queste ultime posizioni replica, con qualche distinguo, la parte conclusiva del citato intervento di Panitch, che apre al prossimo «Register», in uscita a fine anno, anch’esso teso ad esplorare, senza scindere analisi e proposta, gli effetti delle nuove configurazioni di classe sulla possibilità di un’alternativa socialista.

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