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Soane, le rovine senza rovina di 12, Lincoln’s Inn

Soane, le rovine senza rovina di 12, Lincoln’s InnLondra, Sir John Soane’s Museum, Picture Room

L'inquilino dell'intérieur: Joan Soane L’architetto neoclassico entusiasmò la nobiltà inglese con i lucernari e le luci zenitali. Ma lo spirito della sua avventura collezionistica e museografica è, soprattutto, nel progetto della sua dimora londinese: pensata pedagogicamente per i figli e poi divenuta il celeberrimo John Soane’s Museum

Pubblicato più di un anno faEdizione del 11 giugno 2023

I COLLEZIONISTI, UN MONDO MIGLIORE
Il collezionista come sacerdote di «un mondo migliore». Con John Soane apriamo una finestra editoriale su questo singolare tipo umano, titolandola, da Walter Benjamin, L’inquilino dell’intérieur. Ecco il passo: «L’intérieur è l’asilo dell’arte. Il collezionista è il vero inquilino dell’intérieur. Egli si assume il compito di trasfigurare le cose. È un lavoro di Sisifo, che consiste nel togliere alle cose, mediante il suo possesso di esse, il loro carattere di merce. (…) Il collezionista si trasferisce idealmente, non solo in un mondo remoto nello spazio e nel tempo, ma anche in un mondo migliore, (…) dove le cose sono libere dalla schiavitù di essere utili» (Angelus Novus, trad. Renato Solmi). Sfileranno così, con libera cadenza temporale, collezionisti di tutti i tempi, ciascuno interprete, a suo modo e secondo specifiche coordinate culturali e psicologiche, di «un valore d’amatore».

I collezionisti… strana tipologia umana! Spesso li si vuole tutti uguali: ricchi, indaffarati e pieni di sé. Non è così, e proveremo a raccontarlo con una serie di affondi mirati. Partiamo, per esempio, dalla disperazione di John Soane, rispolverando Per una storia della mia casa, un libro tradotto in Italia da Sellerio nel 2010. Il manoscritto, non destinato alla pubblicazione, è firmato «Un Antiquario». In tre stesure, scalate di qualche settimana fra l’agosto e il settembre del 1812, Soane si immagina che la sua casa venga ritrovata come una rovina, dopo secoli di incuria. Questa arcana preveggenza oggi suona più originale di ieri: basta andare al Criptoportico di Caserta per vedere come Vanvitelli voleva illudere gli ospiti dei Borboni nel credersi dentro a uno scavo archeologico, che conteneva anche qualche statua togata, oltre a Venere ed Esculapio, ma le crepe erano finte e i crolli solo immaginazione.
Soane avrà imparato parecchio dall’Italia, e dagli incontri avuti con gli inglesi residenti da noi, nel suo Grand Tour durato due anni (1778-’79). Ad esempio contava molto frequentare in quei tempi Frederick Hervey, l’Earl-Bishop, perché per metà vescovo di Derry e per metà conte di Bristol. Costui amava il Vesuvio e le antichità quanto i primitivi e il «caro Guido», intendeva riunire tutto nella sua rotonda palladiana a Ickworth, se solo i francesi non lo avessero arrestato nel 1798. Visitare Paestum, Agrigento o Tivoli in sua compagnia significava battere il capo sulle piante insieme agli amici disegnatori. Per Soane erano queste le prime luci di una vita spesa da giovane a lavorare e basta, era figlio di un muratore e dai quindici anni si era messo a bottega per il tempo bastante a impratichirsi di un mestiere, quello di architetto.
Forse l’unico oggetto comprato da Soane in Italia, riportato a Londra nel 1780, è un frammento di stucco che viene da Pompei, una sorta di numero uno della sua collezione. Proprio con Hervey i rapporti si interrompono, ma questo lascia spazio per un altro intreccio di relazioni che permette all’architetto di conseguire i primi significativi successi. Ma passa qualche anno prima che si metta a fare sul serio, con tutti gli elementi a disposizione: bisogna aspettare il 1788 per vedere Soane raggiungere l’impiego di architetto per la Bank of England, incarico che manterrà fino al 1833 e che si procura grazie a un altro amico del tempo del Grand Tour, William Pitt.
Così, i sogni di quelli che avrebbero gradito un Pantheon a Londra convergono perlomeno su carta. E lucernari e luci zenitali entusiasmano quei nobili che possono inventarsi, grazie a quell’architetto così convinto delle sue idee, le modalità più azzeccate per esporre i loro quadri di famiglia. Spetta sempre a Soane aver progettato da zero la prima galleria d’arte in Inghilterra aperta al pubblico, la Dulwich Picture Gallery, realizzata fra 1811 e 1817. Ma ora è tempo di vedere che ricadute avesse tutto questo nel privato.
La prima immagine da evocare è a Pitzhanger Manor, la villa suburbana che Soane immaginò come museo prima della casa di Londra, fra il 1800 e il 1804. Da subito l’architetto ha chiaro che lo scopo è formativo: Pitzhanger doveva servire a educare i figli, John e George, in quell’arte inventata su propria misura, e destinata ai propri cari, di miscelare architettura e collezionismo, allestimenti e antichità. Per questo un ruolo fondamentale lo svolgono i calchi e le finte rovine che Soane costruisce in giardino.
Nulla di tutto ciò rimane, anche perché presto subentrano le delusioni. Il figlio primogenito, che si chiama John come lui, non vuole seguire le orme paterne sulla strada dell’architettura così ben lastricata per lui dal padre. Il progetto londinese segue la stessa linea. Soane acquista il civico 12 di Lincoln’s Inn nel 1792: può così ingrandire la proprietà londinese che già possedeva e occupare tre edifici, per riunire in un unico ambiente la casa, l’ufficio e il museo. Forse anche questo non dovette funzionare a Pitzhanger: troppo lontani dalla Londra degli affari, e quel gioco di prestigio della falsa rovina andava sostituito con una vera collezione. I giovani, magari stanchi delle lezioni alla Royal Academy, dovevano imparare qualcosa dai modelli e i clienti convincersi che quell’architetto si fosse guadagnato oggetti di qualità oltre che una buona reputazione, nonostante i tanti malumori che suscitasse quel caratteraccio.
Fatto sta che Soane ricorre a Lincoln’s Inn per rimodulare gli allestimenti pensati a Pizthanger, dove aveva riempito le pareti della Breakfast Room di vasi e urne antiche; non tutto era del livello del Cawdor Vase, una notevole ceramica apula. Solo tre anni dopo il completamento della dimora fuori porta, nel 1807 Soane decide di vendere Pitzhanger, spostando a Londra i due Canaletto comprati all’asta dell’Earl of Bute e tutto il resto. Così i grandi plastici del Tempio di Pompei, di quello di Vesta a Tivoli o dell’intero sito di Pompei, assemblati con attenzione da ceroplasti a fine Settecento, vanno a costituire le tappe di un percorso che Soane racchiude nella sua Model Room, canto del cigno di questo professore che alla Royal Academy aveva litigato con tutti. E anche la Picture Room, capolavoro della museografia di ogni tempo, dove centodiciotto dipinti sono fruibili muovendo gli sportelli pensati apposta dall’architetto, fa parte di quest’ultimo atto di un uomo ormai rassegnato a non consegnare tutto questo agli eredi ma all’umanità.
Nel 1824 arriva il colpo da maestro: Soane compra il Sarcofago di Seti I, una vasca in alabastro scoperta da Giovanni Battista Belzoni nel 1817 e che il British aveva rifiutato di comprare nel 1821. Che stupore tutte quelle iscrizioni tratte dal Libro delle Porte e le figurazioni del Nuovo Regno con Osiride giudice dei morti, Nut che sorge dalle acque primigenie, e tanto altro. L’occasione è propizia, non fosse altro che bisogna riconfigurare tutto ancora una volta e il sarcofago sprofonda sotto la cupola, a livello ribassato, punto di fuga rovesciato di tutta una vita. Quando l’acquisto arriva a casa, Soane celebra tre giorni di festa, da padrone di casa accoglie quasi novecento persone, fra autorità e appassionati. E anche a leggere le descrizioni che fa redigere e poi pubblicare, a partire dal 1832, si capisce che il sarcofago sta in vetta alle preferenze, poco dopo le pistole e i ritratti di Napoleone.
Nel 1827, l’antiquario John Britton aveva pubblicato una prima descrizione del museo – ed è significativo che non fosse di pugno del collezionista –, poi era venuta una prima edizione della General Description of Sir John Soane’s Museum. Sono le prime forme che garantiscono una sopravvivenza che arriva sino ai giorni nostri, anche rispetto alle tante istituzioni fiorite a Londra nel mezzo secolo precedente, tutte basate su una logica associativa che ha visto maggiori avvicendamenti nel corso del tempo. Così, quando Soane nel 1833 ottiene dal Parlamento britannico di rendere accessibili al pubblico la collezione, la biblioteca e le opere dopo la sua morte, si sottolinea che i fondi necessari al mantenimento saranno reperiti dal board of trustees. Qualcuno della famiglia si oppone, pensa che il patrimonio dovrebbe toccare a lui, qualcun altro sostiene che al British quelle collezioni starebbero meglio.
Il collezionista muore nel 1837, gli ultimi anni sono spesi a dare alle stampe, ad esempio, altre centocinquanta copie di un volume in quarto con la nuova descrizione della casa e del museo. All’inizio i giorni di apertura erano un paio la settimana, ma per arrivare ai centomila visitatori annuali dei nostri tempi non bisogna solo considerare quanto abbia contato la pervicacia di Soane nel prevenire le contaminazioni dei secoli a venire. Nella vita del museo degli ultimi decenni, la cura nella direzione, nella conservazione e nella promozione di restauri è stata costante. I secoli di incuria immaginati in quel manoscritto si sono trasformati nella restituzione di una personalità, abbandonando però i suoi momenti di sconforto.

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