Smitizzare Atene: antichisti e giuristi in dialogo con le scienze politico-sociali
Saggi «Atene, vivere in una città antica», a cura di Marco Bettalli e Maurizio Giangiulio, da Carocci
Saggi «Atene, vivere in una città antica», a cura di Marco Bettalli e Maurizio Giangiulio, da Carocci
L’Atene antica, quella dell’epoca di Pericle già innalzata da Plutarco a età aurea della grecità, divenne una delle fonti principali della tradizione umanistica italiana ed europea a partire dalla sua riscoperta nel Quattrocento, e tale rimase poi per secoli, ispirando perfino suggestive utopie urbanistico-architettoniche di nuove Atene (da Weimar a Monaco di Baviera a Edimburgo), fino a trascolorare nel mito della città perfetta (ne parlava qualche anno fa un libro di André Reszler, Il mito di Atene, recensito su «Alias» il 24 settembre 2011). Non è questa la prospettiva che abbraccia Atene, vivere in una città antica, a cura di Marco Bettalli e Maurizio Giangiulio (Carocci editore «Frecce», pp. 343, euro 35,00), e neppure quell’altra, più recente, di archetipo della «democrazia occidentale», ossia del regime liberal-rappresentativo euratlantico vincitore della Guerra Fredda. Non i miti sono al centro di questo volume, quindi, bensì i dati concreti (i Realien, per dirla con i dotti tedeschi dell’Ottocento) che le ricerche storiche, epigrafiche, archeologiche hanno riportato alla luce da quando lo studio dell’antico è passato dalla dimensione amatoriale-erudita a indagine sistematica e scientifica.
Tuttavia non si tratta neppure di un libro all’insegna dei fatti «nudi e crudi», pervaso dall’illusione che basti descrivere la realtà per capirla: cosa mai significherebbero quei dati se si rinunciasse all’interpretazione? Questa consapevolezza costituisce uno dei tratti che maggiormente connotano i dodici capitoli in cui esso è suddiviso, raggruppati in tre sezioni: «strutture» (la politica, la guerra, l’economia, la giustizia), «società» (le donne, gli stranieri, gli schiavi), «percorsi» (topografia, monumenti, necropoli, rapporto oralità/scrittura, filosofia), scritti da storici, archeologi e studiosi di diritto. Altro tratto caratterizzante è l’integrazione tra fonti storico-letterarie e dati archeologici; ma ad essere innovativo è soprattutto il dialogo con le scienze politiche e sociali, qualcosa che non si può certo dire scontato nell’ambito dell’antichistica (non solo) italiana.
Il capitolo di Giangiulio che apre il volume, dedicato alla «comunità politica all’opera», si concentra anzitutto sui demi, sorta di municipi o comunità civiche sparse per tutta l’Attica; da essi dipendeva il riconoscimento della cittadinanza, che dunque non era uno status dato una volta per tutte, anzi, pur entro certi limiti, veniva controllato dal basso, non da istituzioni centrali o da una burocrazia impersonale e asettica. In questo controllo dal basso si può cogliere una fondamentale dimensione partecipativa, spesso trascurata da letture troppo ideologiche. Il concetto stesso di partecipazione viene poi sganciato dalla questione, ancora dibattuta, del numero effettivo di presenze nelle riunioni dell’Assemblea, che secondo stime attendibili oscillava nel V secolo tra il 10 e il 20% degli aventi diritto, insomma una netta minoranza del totale. Dalle fonti è chiaro però che l’Assemblea si rappresentava come il popolo tutto (il termine è, di nuovo, demos); si trattava allora di una finzione? Piuttosto di «una costruzione ideologica» profondamente vissuta che irrora tutte le istituzioni del regime democratico. Atene, insomma, era democratica non tanto perché tutti partecipavano alle sedute dell’Assemblea ma perché era il corpo civico a detenere la massima autorità, che oltre che nell’Assemblea si esprimeva concretamente nei tribunali, formati da comuni cittadini a cui non era richiesta alcuna speciale conoscenza del diritto (ne parla in un capitolo a sé Stefano Ferrucci), e nei già nominati demi.
Anche il capitolo sull’economia (Ugo Fantasia), pur fortemente ancorato ai dati ricavabili dalle fonti letterarie e archeologiche, non rinuncia a porsi questioni generali (quanto era diseguale l’Atene classica?) e a ricorrere al lessico della teoria economica neo-istituzionale, disegnando il quadro di una società non primitiva ma dinamica e razionale, fino a far emergere a metà del IV secolo un nuovo approccio basato non più su ambizioni imperialistiche ma sullo sviluppo pacifico delle attività commerciali e produttive.
Alle categorie escluse dalla cittadinanza attiva, spesso chiamate in causa per ridimensionare la ‘modernità’ della città antica o per demolire il tentativo di additarla a modello, è riservata un’apposita sezione. Laura Pepe si interroga su quanto il modello della donna segregata in casa trovi riscontro nella realtà quotidiana, mentre Cinzia Bearzot indaga status giuridico e rappresentazioni letterarie di stranieri e di meteci (gli stranieri residenti), problematizzando la rigida separazione tra le varie categorie di residenti in favore di una realtà sociale molto più mossa. Un quadro ancor più variegato è quello degli schiavi, analizzato da David M. Lewis: oltre agli schiavi occupati in agricoltura o nelle miniere, figurano pure quelli dediti ad attività bancarie così remunerative da consentire loro di guadagnare la libertà e comprare la banca stessa.
Tra i dati concreti a tutt’oggi disponibili, spiccano naturalmente i resti materiali, sia dei monumenti più celebrati, a partire dall’acropoli, sia dei più modesti ma molto numerosi segnacoli funerari (epigrafi, steli, vasi ecc.) che gli scavi continuano a far riemergere. Riccardo Di Cesare ricostruisce la storia del rapporto tra monumenti pubblici e memorie pubbliche, che cambia nel tempo: dall’esibizione delle rovine della distruzione nel periodo successivo all’invasione persiana, alla costruzione dei maestosi edifici voluta da Pericle quando la città si era oramai consolidata come capitale di un impero marittimo. La «città dei morti» viene perlustrata da Stefania De Vido e Daniela Marchiandi con occhio attento all’equilibrio mutevole tra pubblico e privato, tra volontà di eguaglianza della polis anche nelle tombe ed esigenze di riconoscibilità delle famiglie. A ripensare un’altra dicotomia, oralità/scrittura, stimola Mirko Canevaro: non più una transizione netta dall’una all’altra ma piuttosto due dimensioni che per tutta l’età classica si integrano nelle pratiche della politica, del diritto e della giustizia. È l’affresco di una Atene davvero «complessa, molteplice e stratificata». Senza classicismi e senza riduzionismi.
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