Robert Smithson e Roma entrarono in contatto per due volte, nel 1961 e nel 1969, e in entrambi i casi l’artista produsse lavori profondamente connessi con il genius loci romano, ma in apparenza sideralmente distanti per stile e spirito della ricerca. La prima volta fu nell’estate del 1961. Il gallerista americano George Lester invitò uno Smithson appena ventitreenne a esporre nella sua galleria romana, da poco aperta in Via Mario de’ Fiori 59. I lavori esposti, disegni e collage di piccolo e medio formato, tradivano un interesse dell’artista verso un’iconografia religiosa cristiana: «I dipinti che le invio rappresentano la mia crisi spirituale», aveva scritto Smithson a Lester nel maggio di quell’anno, «una crisi ingenerata da un dolore interiore; un dolore che ha travolto il mio intero sistema nervoso», svelando come quell’interesse non fosse limitato a un problema di natura meramente estetica.

Smithson rimarrà a Roma per tre mesi. «Temo che Romolo + Remo abbiano gettato la spugna. La lupa è impazzita. Roma sprofonda nella miniera», scriverà alla fidanzata Nancy Holt in luglio, e nella stessa lettera annoterà: «Rome Is Still Falling». E Robert Smithson. Rome Is Still Falling è appunto il titolo della mostra fino al 21 maggio al MACRO di Roma, curata in collaborazione con la Holt/Smithson Foundation, che prende il via proprio da quell’episodio per esporre un nucleo di venti opere realizzate tra il 1960 e il 1964, parzialmente inedite, nell’ambito di un programma espositivo del museo teso ad approfondire la storia espositiva romana del ventesimo secolo.

Dal punto di vista storico-artistico, si tratta di un aspetto della ricerca giovanile di Smithson rimasto a lungo dimenticato, probabilmente tenuto in ombra dalla ben più solida affermazione come land artist che egli avrebbe conseguito negli anni seguenti; aspetto resuscitato prima della mostra attuale soltanto dalla Diane Brown Gallery di New York nel 1985, in occasione della quale il critico Stuart Morgan intuì, in un articolo su «Artforum», che nella crisi vissuta da Smithson, e all’origine di quei lavori, erano comprese due forze opposte e uguali, una l’attrazione verso il cattolicesimo, l’altra il bisogno di rovesciarlo.

In un gruppo di disegni a gouache e inchiostro appaiono figure intere del Cristo, o dettagli, che tradiscono quell’interesse dell’artista per i contesti bizantini e paleocristiani di Roma, innescato dalla lettura di Thomas Ernest Hulme e dall’idea di questi che l’astrazione bizantina fosse in antitesi con l’umanismo rinascimentale. Come si evince da una lettera scritta da Smithson a Lester nel giugno 1961, infatti, il suo Cristo era eseguito seguendo «non la “disciplina” di Giotto, ma la “disciplina” di quei martiri fatti a pezzi nel circo di Diocleziano. Non disciplina estetica ma disciplina ascetica». Perciò, proseguiva l’artista, «non è il corpo a essere velocemente martirizzato, ma è l’anima che, lentamente, si avvia verso il martirio». In più, una sottile memoria atzeca traspare da certe durezze espressionistiche e da certi ritmi lineari riscontrabili in lavori come Hands Stigmata, Fallen Christ o Feet of Christ, quest’ultimo perfino profetico di quel movimento vorticoso che sarebbe riemerso in altra forma con la famosa Spiral Jetty del 1970. La straordinaria Veiled Madonna del 1962, folle reinterpretazione smithsoniana di un’icona bizantina, rivela poi un inaspettato sintomo di Pop Art in un tappo di Pepsi incastonato nell’aureola fintamente minerale e stratificata.

Accanto a questi disegni più austeri, focalizzati su una iconografia cristiana più chiara e circoscritta, sono esposte poi delle invenzioni, realizzate nel 1961 o poco dopo, che potrebbero essere definite para-pop, in cui si affastellano con un furente senso dell’horror vacui immagini e spunti visivi tra i più eterogenei, presi sia dal mondo pubblicitario, sia dall’immaginario storico-artistico di Roma, sia dagli interessi dell’artista per le ere geologiche. Avviene così che nel collage e gouache Creeping Jesus (1961) convivano un Cristo crocifisso ed elementi presi dalle foto pubblicitarie, come un’automobile, un frammento di slogan commerciale, delle donnine in costume fiere del bollitore o ferro da stiro appena acquistati – e trasformate da Smithson in sante – ossia i mattoni dell’immaginario di quell’American dream che si stava in quegli anni esportando in molte parti del mondo, ma ibridati con stimoli iconografici mutuati dalla vecchia cultura europea. In un altro disegno, nudi maschili alati e non, vagamente alla Blake, e pegasi, dialogano con inserti di collage raffiguranti pubblicità di barattoli di latte in polvere Carnation (quello stesso anno Warhol realizzava le sue famose Campbell’s Soup Cans), banconote del Monopoly, lucertole, radiatori di auto e biglietti con i prezzi del cinema o di un parco dei divertimenti. Tutti questi spunti visivi sono tenuti insieme da uno spazio liberamente acquerellato e disegnato dall’artista, secondo modalità che ricordano per certi versi la spontaneità di certe fioriture e concrezioni automatiche dei surrealisti, arrivando in molti casi a produrre una sorta di piccole forme biomorfiche.

Robert Smithson a Roma nel 1961 in un’instamatic photo di Lorraine Harner. Courtesy Holt/Smithson Foundation and Marian Goodman Gallery

Spostandosi più avanti, verso la metà del decennio sessanta, si assiste a un cambiamento nella ricerca disegnativa di Smithson, e all’apparizione di una sensibilità lisergica, forse derivata al mondo beat, ben presente all’artista, che proprio a Roma lesse Burroughs, quasi ad anticipare i fasti della controcultura psichedelica.

Questa fase di ricerca visivamente sovraccarica dello Smithson disegnatore e collagista lascerà il posto verso il 1965 al minimalismo prima e alla Land Art poi, passaggio maturato probabilmente anche grazie alla frequentazione della scultrice Nancy Holt, che sposerà Smithson nel 1963, e di altri amici scultori gravitanti intorno al gruppo minimalista Primary Structures.

Proprio a Roma, per la seconda volta, Smithson porrà in essere, nel 1969, uno dei suoi earth projects con la complicità del gallerista Fabio Sargentini, persino precedendo di un anno Spiral Jetty, il suo intervento di land art più celebre, creato sul Great Salt Lake in Utah.

A Roma verserà un’enorme colata di asfalto giù per il pendio di una cava abbandonata lungo la Laurentina, poco fuori città, dando una forma monumentalmente scultorea alla fascinazione sviluppata per la geologia e le stratificazioni minerali, per l’entropia, e per gli earthworks, che aveva da poco definito in un suo scritto «sedimentation of the Mind».

E forse al termine opposto di questa «sedimentazione della mente» si possono collocare proprio quei giovanili coacervi caotici di elementi iconografici di varie ere e natura, che altro non erano se non tentativi del giovane artista di confrontarsi con l’eredità culturale così densa e intimorente della vecchia Europa, da un lato, e dall’altro con il nuovo immaginario americano, finendo poi per abbandonare, superare, entrambi in direzione di ritorno a un’antichità archetipica geologica e minerale.

Resta la suggestione che a questi sviluppi avesse contribuito, tra le altre cose, anche un’altra lettura fatta da Smithson durante il soggiorno a Roma, quella di Ezra Pound, che nel suo Hugh Selwyn Mauberley aveva paragonato l’Europa a «due partite di statue in macerie», a «pochissime migliaia di libri malconci» per cui erano morti i militi della prima guerra mondiale. Non a caso, anni dopo, incalzato dalle domande di Paul Cummings in un intervista per «Archives of American Art», e rievocando quegli anni giovanili, Smithson asserì: «Semplicemente avvertii che l’Europa aveva consumato la sua cultura».