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Smettiamola di chiamarlo smart working

Smettiamola  di chiamarlo  smart working

Habemus Corpus Francamente, non se ne può più di sentirlo chiamare così. In altri paesi il lavoro da casa lo traducono in inglese per quello che è, home working.

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 23 giugno 2020

Francamente, non se ne può più di sentirlo chiamare smart working. In altri paesi sono più obiettivi e il lavoro da casa lo traducono in inglese per quello che è, home working. Questa moda di definirlo smart, sorridente, è un trappolone linguistico nonché concettuale secondo cui chi lavora dal proprio soggiorno, camera o cucina lo faccia sorridendo, forse ballando, insomma in una specie di semi vacanza visto che è lontano dagli occhi del capo. I mesi di clausura hanno dimostrato che le cose nella realtà sono molto diverse e che il lavoro da casa rappresenta una fatica in più, non in meno, soprattutto per le donne che continuano ad avere sulle spalle il maggior carico del lavoro di cura.
Molte ne sono così consapevoli che un gruppo di madri e lavoratrici tedesche circa un mese fa ha organizzato una class action emettendo una fattura di ottomila euro allo Stato come richiesta di compenso per il lavoro supplementare svolto durante la chiusura delle scuole. Diffusa con l’hashtag CoronaElternRechnenAb (i conti dei genitori per il coronavirus), la somma compenserebbe simbolicamente i servizi educativi che i genitori hanno dovuto compiere, oltre al proprio lavoro, al posto delle scuole chiuse, ma anche tutte quelle mansioni mai riconosciute e che comprendono fare la colf, l’infermiera, la badante, la cuoca, la psicologa, la governante, insomma la problem solver a tutto tondo.

POCHI GIORNI FA, questa volta a Zurigo, il tribunale federale ha dato ragione a un’impiegata che aveva chiesto al datore di lavoro, senza successo, di contribuire all’affitto della propria abitazione che aveva dovuto in parte destinare a ufficio. I giudici hanno stabilito che la dipendente ha diritto a un indennizzo di 150 franchi al mese da rimborsare anche retroattivamente e che il contributo va riconosciuto anche per spese di mobilio pure se il lavoro da casa è volontario.
Torniamo in Italia dove, secondo i dati Istat, il 33,8% delle famiglie non ha computer o tablet in casa e solo nel 22,2% dei casi ogni componente ne possiede uno. Ripensiamo ai mesi di confinamento con la gran parte degli uffici chiusi e scuole sbarrate. Immaginiamo una famiglia di tre o quattro persone dove i genitori e i figli devono seguire da remoto lavoro e lezioni. Poco più di 22 su 100 fra loro possono lavorare o studiare contemporaneamente, mentre quasi 34 su 100, ben un terzo della popolazione, non può fare nulla di nulla, esclusi da tutto.

LA SETTIMANA scorsa, il giuslavorista Pietro Ichino ha detto che per la maggior parte dei dipendenti pubblici «Lo smart working è stato una lunga vacanza pressoché totale retribuita al 100%», seguito a ruota dal sindaco di Milano Beppe Sala che ha dichiarato: «Stop a smart working. Torniamo al lavoro. L’effetto grotta è pericoloso». Ma come, fino a poco fa tutti a benedire la possibilità di lavorare in remoto e adesso chi lo ha fatto si sente dare del fannullone? Ci sarà anche stato chi ne ha approfittato, ma come la mettiamo con quel terzo di italiani esclusi da tutto? Servirebbero dati certi prima di dare giudizi, sennò viene da pensar male. Ovvero, che questo atteggiamento altalenante nasca da una mentalità che vuole il lavoratore sempre a disposizione, quando e come fa comodo a chi dirige e comanda. Oggi mi vai bene a casa, domani in ufficio, fai i turni che decido io, quando lo decido io e prendi la paga che voglio io. Se sei in smart working, le spese sono a carico tuo. E non lamentarti eh, perché sei già fortunato ad avere un lavoro. Ah lo vuoi chiamare home e non smart. Lo vedi che sei lavativo.

mariangela.mianiti@gmail.com

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