«Slot Waste», essere lo spirito della Fabbrica, per gioco
In Slot Waste siamo lo spirito della Fabbrica: non di una qualsiasi, ma del concetto stesso. Associamo, modelliamo, rimoduliamo, distruggiamo, comprimiamo e uccidiamo pezzi, oggetti e soggetti del processo produttivo. Non vedremo mai il nostro volto, non sapremo mai il nostro nome; allo stesso modo, non conosceremo il ruolo, il senso e il contesto per i quali determinate azioni comportino altrettante conseguenze: tireremo leve, tenderemo cavi e uccideremo creature perché così impone l’unica interazione possibile. Gli elementi coinvolti in questo processo sono al contempo reali e assurdi: il cavallo si associa a esseri antropomorfi incomprensibili, così come il cavo si connette a oggetti così strambi da sembrare surreali. Come gli elementi che lo compongono, anche le connessioni tra tutte queste fasi rimarranno per noi oscure: passeremo dal ricostruire una sbarra di ferro al trapiantare cervelli a uccellini defunti, il tutto col solo obiettivo di completare la fase di produzione di quel momento.
Questo contesto di assoluta immersione nella produzione e al contempo di totale alienazione da ciò che questi processi porteranno alla luce, sfocia in un vero e proprio coro di feci, che intona «Time has made a change in me»: il processo non è finito, è solo in una delle sue infinite fasi di rinnovo, ma chi ne ha fatto parte è invece giunto a una, amara, putrida conclusione.
Ma questo tempo che scorre non lascia tregua allo spirito e subito ricomincia la produzione, esattamente dallo stesso momento iniziale: senza un senso e uno scopo, si produce per il senso di produrre.
Slot Waste stordisce per un marcatissimo realismo fotografico, che stona clamorosamente con l’assurdità della sua messa in scena: per un breve momento, si crederà che davvero gli escrementi del cavallo, uniti alla testa di carote urlanti, facciano da collante per un nuovo metallo.
Lo stesso dicasi per l’accompagnamento sonoro: il rumore di bestie morenti, ferri incandescenti e macchinari cigolanti sarà tutto ciò che sentiremo, fino al fatidico momento della «merda canora».
Ricordate il programma «com’è fatto?», ci mostrava alcuni elementi dei processi dietro alla costruzione degli oggetti più disparati: dai violini alle sedie per esterni, tutto veniva raccontato con minuzia e dettaglio, relativamente alla fase «meccanica». Tutt’altro che realistico o oggettivo, il programma cancellava però dalla vista dello spettatore i conflitti sociali e umani in seno a tali processi: in tal modo, rendeva un servizio non informativo, ma politico.
Slot Waste, nell’assurdità, stranezza e incomprensibilità di tutti le fasi e i soggetti coinvolti dal processo di produzione, restituisce però con maggiore realismo il freddo dolore degli animali; l’asettica reazione del lavoratore; l’empatia anestetizzata dall’alienazione.
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