Cultura

«Slavery», una biografia cruenta

«Slavery», una biografia cruentaRomuald Hazoumè, installazione «La bouche du roi»

Mostre Al Rijksmuseum di Amsterdam, l’Olanda fa i conti con il suo passato schiavista. E con gli echi che si riverberano sul presente

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 13 giugno 2021

Sono i canti corali degli schiavi e delle schiave del continente africano e asiatico ad accogliere il visitatore della mostra Slavery al Rijksmuseum di Amsterdam (visitabile fino al 29 agosto). È la prima volta che una delle più importanti istituzioni culturali dei Paesi Bassi ospita una rassegna in grado di fare i conti con il passato schiavista olandese. E anche con il presente, ponendo l’attenzione sulle minoranze che condividono spesso un comune retaggio schiavile, capace di spiegare le scelte migratorie dei loro avi o parenti più prossimi.
Le curatrici (Eveline Sint Nicolaas, Valika Smeulders, Maria Holtrop e Stephanie Archangel), nell’alllestimento e nell’itinerario proposto, hanno voluto chiarire questo stretto legame tra storia e attualità, tra sfruttamento remoto e quello odierno. Nelle prime sale, infatti, il visitatore passa dall’ascolto di alcuni spezzoni dei canti degli schiavi all’opera dell’artista del Benin Romuald Hazoumè, che ha raccolto, decorato e messo in ordine pezzi delle taniche utilizzate per smerciare e trasportare di nascosto un prodotto altamente inquinante come il petrolio estratto dalle compagnie occidentali, a partire dall’olandese Shell, sulle coste africane bagnate dall’Atlantico.

Gerrit Schoute, Diorama

UN FIL ROUGE quello del passato inestricabilmente intrecciato con il presente che si manifesta anche nella scelta di dieci personalità dello spettacolo e della cultura, discendenti da individui deportati dalla loro terra di origini: sono loro a dare voce a altrettante storie di persone rese schiave nel periodo del commercio triangolare.
Il primo che si incontra è João Mina: il suo nome appare nei documenti di metà XVII secolo quando, in fuga dalle piantagioni portoghesi in Brasile, finì nelle mani degli olandesi che stavano avanzando nel continente sudamericano. La sua testimonianza è una denuncia delle torture a cui gli schiavi andavano incontro: al cosiddetto tronco, esposto in mostra, erano legate contemporaneamente le caviglie di cinque o sei uomini.
In Slavery si racconta anche la storia di Wally, condannato a morte sul rogo nel 1707 a Palmeneribo su decisione del governatore De Gruijter. Era la severa punizione per non aver accettato i soprusi del padrone della piantagione, provando a contrattare condizioni migliori. C’è poi Tula, a Curaçao, quasi un secolo dopo. Si ribellò al sistema schiavista, era il 1795 e il grido di libertà e uguaglianza della Rivoluzione francese risuonava tra gli schiavi delle colonie in America. Tula ne fu conquistato e chiamò alla rivolta con una marcia attraverso le piantagioni. Senza armi né cibo, l’insurrezione durò qualche settimana. Tula fu ucciso ma il seme della rivoluzione stava per attecchire in altre isole.

SONO PROPRIO LE BIOGRAFIE di uomini come João, Wally o Tula, che subirono la schiavitù, o di quelli che ne beneficiarono, come i coniugi Oopjen e Marten, a costruire una narrativa della tratta di esseri umani dall’Africa e dall’Asia. A comprarli e a sfruttarli erano intere famiglie olandesi, come la giovane coppia protagonista dei due dipinti di Rembrandt del 1634 (in esposizione).
Oopjen e Marten li avevano commissionati per celebrare il loro matrimonio. E naturalmente la loro ricchezza che, nel giro di pochi anni, le due famiglie di origine avevano accumulato grazie al commercio dello zucchero estratto dagli schiavi nelle piantagioni americane. Tra il 1602, quando nacque la Compagnia delle Indie Orientali, seguita di lì a una ventina di anni da quella delle Indie Occidentali, e il 1863, data ufficiale dell’abolizione della schiavitù nei Paesi Bassi, le stime dicono che oltre 600mila esseri umani subirono la deportazione dall’Africa con desinazione America del Sud e del Nord. E quasi un milione furono costretti a lavorare nelle piantagioni delle isole del Pacifico, nelle miniere d’argento di Sumatra o nelle fattorie del Sudafrica, alimentando un giro d’affari di primo piano: ricerche recenti evidenziano che una parte importante dell’agiatezza olandese, nel pieno dell’età moderna, è connessa proprio con la manodopera schiavista.

«SLAVERY» ARRIVA dopo una lunga stagione di mobilitazione del movimento antirazzista olandese. Si va dalle contestazioni annuali a Zwarte Piet, figura folkloristica accusata di veicolare un’immagine caricaturale e offensiva dei discendenti degli schiavi neri, fino all’imponente manifestazione Black Lives Matter nella piazza centrale di Amsterdam dello scorso anno, passando per le visite guidate alla scoperta dei retaggi coloniali ancora visibili in città e per il fondamentale lavoro di ricerca di The Black Archives.
Nell’ultima stanza della rassegna al Rijksmuseum, due termini sono incisi al contrario sulle pareti. Per leggerli e capirne il significato bisogna guardare lo specchio. Solo riflesse, le lettere si dispongono nell’ordine corretto. È la potente metafora di un cambio di prospettiva e di sguardo necessario a rileggere il passato e a affrontare, con un bagaglio di conoscenze adeguato, un presente complesso. La città di Amsterdam, come testimonia la recente decisione delle autorità cittadine di fornire gratuitamente ai suoi abitanti un libro sul suo ruolo nel commercio degli schiavi, ne aveva bisogno.

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