Sixties, l’invasione del British blues
Si dice «British blues», e ci si accorge, mentre scorrono i nomi, che prima si farebbe a nominare tout court tutto quanto o quasi è successo nel rock in tumultuosa evoluzione tra i primi anni Sessanta e, a prenderla stretta, la metà abbondante del decennio successivo. Il blues innestato sul rock’n’roll ha allora spodestato in terra d’Inghilterra lo skiffle degli anni Cinquanta, impersonato da un entertainer di razza come Lonnie Donegan, ma presto finito nel registro delle cose belle e passate.
C’è stata un tappa fondamentale, naturalmente: l’arrivo in terra d’Albione, nel 1958, di uno sconvolgente Muddy Waters. Chi si aspettava un signore nero pacato intento ad armeggiare con le corde acustiche si trovò catapultato in un gustoso inferno elettrico dove i «diavoli blu» sembravano pascersi di watt tonitruanti. Fu un’illuminazione anche per Alexis Korner e Cyril Davis, che fatta la scelta elettrica diedero vita a partire dal 1961 ai Blues Incorporated, un crocevia molto affollato di presenze (a volte effimere, a volte durature) che sarebbero state determinanti nella storia del rock e del blues inglese.
I SEGRETI
Ci passa e ci si forma praticamente tutta la prima ossatura dei Rolling Stones (Brian Jones, Mick Jagger, Keith Richards, Charlie Watts), che lì apprendono i segreti del blues e del rhythm and blues ossessivo e straniante (I Can’t Get No Satisfaction ne porterà pesanti e riconoscibilissimi segni), ci passano i due terzi di quello che sarà il primo power trio del rock inglese ben infiltrato di blues, i Cream: nei Blues Incorporated ci sono il bassista Jack Bruce e il batterista Ginger Baker.
Non è finita, lì si fanno le ossa Long John Baldry, futuro grande solista blues e Graham Bond, un perno fondamentale del futuro rock inglese. Le medesime scaturigini blues le hanno i rocciosi e selvaggi Animals di Eric Burdon, formatisi nel 1962. Burdon ha un «quid» vocale in più e fa da tramite, per l’Inghilterra, per decine di brani schiettamente rhythm and blues, in un lustro di attività scandita da centinaia di concerti e dischi che sono rimasti.
È più o meno lo stesso arco cronologico di attività dei grintosi Them con la voce seminale di Van Morrison, che in studio si portano sessionmen destinati a vette stellari come il chitarrista Jimmy Page e il bassista John Paul Jones, futuri Led Zeppelin, il «ponte sonoro» tra blues inglese e hard rock. Nel 1963 in cui nascono i Them sbalzano fuori dalle cronache anche gli Yardbirds con in formazione un giovane chitarrista dal tocco micidiale e tornito sulla sei corde, Eric Clapton: l’inizio è tutto nel segno di Chuck Berry e Bo Diddley, poi il suono si evolve. Ma dagli Yardbirds passeranno anche altri assi della chitarra, Jeff Beck e il già citato Jimmy Page.
In quel fatidico 1963 nasce anche, in agosto, lo Spencer Davis Group, specializzato nella proposta di un rhythm and blues torrido ed erotico, infiltrato di soul: il merito va a un giovanissimo talento, sia per il timbro stentoreo della voce, sia per l’abillità all’organo. È Steve Winwood, quindici anni all’epoca, enfant prodige che ancora giovanissimo fonderà poi i gloriosi Traffic. L’ultima menzione per il 1963 va alla Organisation di Graham Bond, organista Hammond eccelso: ci sono Jack Bruce e Ginger Baker dai Blues Incorporated, poi arriva la chitarra già futuribile di John McLaughlin, destinato ad alti voli con Miles Davis e da solista, e il sax di Dick Heckstall Smith, futuro membro dei grandi Colosseum, già nei Bluesbreakers con un altro futuro Colosseum, il batterista Jon Hiseman.
Nella primavera del 1965, quando già il rock inglese comincia a dar segni di svolta verso il progressive, la psichedelia e l’art rock, il pallino del blues revival è davvero nelle mani di John Mayall con i suoi Bluesbreakers, gruppo in tutto e per tutto complementare ai Blues Incorporated di Alexis Korner per apertura, flessibilità, capacità di scegliere nuovi talenti.
EVOLUZIONE
Se quest’ultimo ha i due terzi dei futuri Cream, Mayall ha il terzo lato del futuro triangolo, Eric Clapton. Ma anche il bassista John Mc Vie, futuro Fleetwood Mac. Poi nei Bluesbreakers ci saranno alla sei corde il visionario Peter Green, anch’egli futuro Fleetwood Mac, dal 1967, e Mick Taylor, l’uomo che dovrà occupare il posto lasciato scoperto negli Stones dalla morte di Brian Jones.
Il British blues evolve poi nel segno della durezza, dell’essenzialità, o, per converso, della complicazione, a volte tutte e due le cose assieme, nell’arco di un disco: le redini del passaggio possiamo ritrovarle tra le mani di gruppi come Kinks, Who, Pretty Things, Small Faces. Sullo sfondo, ma neppure troppo, le dispute tra Mod e Rocker immortalate in Quadrophenia, in realtà entrambe le subculture scaturite dallo stesso alveo afroamericano. Chi si rifà al blues, a quel punto, e siamo allo scorcio degli anni Sessanta, in Inghilterra, darà vita a gruppi che saranno vissuti come «rock band», anche se combustibile, grinta, idee vengono dal blues, e in quel perimetro trovano e continuano a trovare continui spunti creativi. Prime citazioni per i Led Zeppelin dei primi due album, che mettono a macerare il blues in un muro di watt scalato dalla voce aliena di Robert Plant, e per i Fleetwood Mac con Peter Green, tra il ’67 e il ’70, blues duro e puro che scatena anche un’appassionante session registrata alla Chess con i «padri neri» Willie Dixon e Otis Spann.
Nel ’66 erano nati i Savoy Brown, che fino al ’69 sforneranno dischi di più che pregevole blues progressivo, a partire da Blue Matter. È il medesimo ambito dei mai troppo noti e possenti Steamhammer, che sfiorano anche atmosfere blues jazz e inseriscono accenni folk. Il chitarrista Stan Webb dà vita nel ’68 ai duraturi Chicken Shack. British blues nel solco dei Bluesbreakers di Mayall onesto e diretto.
Un altro chitarrista di valore, Tony McPhee è responsabile di un altro progetto in blues duraturo, e col fascino nascosto che hanno certi personaggi di confine: è il trio Groundhogs, che alterna sferzanti blues aperti in chiave hendrixiana a momenti più pacati. Dall’Irlanda arrivano invece i Taste, la prima formazione del chitarrista virtuoso e generosissimo Rory Gallagher, destinato a diventare il «Clapton proletario» nella sua incandescente e successiva carriera solistica scandita da concerti incendiari, dove il blues è sempre colonna portante, che le sue dita tocchino le corde di una Fender Sunburst corrosa dal sudore, o un sassofono, un mandolino, un’armonica a bocca.
Molti i gruppi del genere rimasti nel cono d’ombra: Aynsley Dunbar Retaliation, Black Cat Bones, Bakerloo, i formidabili e mobili Patto con Ollie Halsall, le due band blues rock con vocalist di potenza e duttilità al femminile, Stone the Crows e Vinegar Joe. Due nomi li teniamo in fondo, perché scandiscono perfettamente, come i Led Zeppelin, il passaggio dal British blues della prima ora al rock blues che farà da ossatura a molta popular music inglese di tutti i Settanta. Stiamo parlando dei possenti Free del grintoso Andy Rodgers, nati dalle ceneri dei Black Cat Bones, e dei sostanziosi Ten Years After guidati dal velocissimo chitarrista Alvin Lee, piccoli eroi blues’n’roll di Woodstock con I’m Going Home.
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