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Siria, con le sanzioni Usa serve un nuovo ruolo dell’Ue

Siria, con le sanzioni Usa serve un nuovo ruolo dell’UeSiriani a Instanbul – Ap

Siria Contribuire a garantire un futuro per queste persone è forse l’unico mezzo a disposizione oggi dell’Europa per poter giocare un ruolo minimamente positivo nell’enorme tragedia che è diventata il conflitto siriano

Pubblicato quasi 5 anni faEdizione del 15 dicembre 2019

Nei prossimi giorni il Congresso americano potrebbe approvare in via definitiva il cosiddetto «Caesar Act», una legge che imporrebbe all’amministrazione Usa di incrementare ulteriormente le sanzioni sul regime siriano, espandendole anche contro i suoi principali alleati Iran e Russia. La possibile approvazione di questa legge ha riaperto il dibattito sull’annosa questione delle sanzioni e in particolare di quelle applicate sul regime di Assad sia dagli Usa sia dall’Ue.

Come molti altri argomenti in questi tempi tormentati, anche questo tema non ha mancato di generare una profonda polarizzazione tra due campi contrapposti.

Da una parte vi sono i grandi sostenitori del regime sanzionatorio contro Damasco e del suo potenziale incremento. Alla base di questa posizione vi è la necessità di punire le continue, e ampiamente documentate, violazioni dei diritti umani da parte del regime, nonché i continui attacchi indiscriminati contro la popolazione civile nelle aree ancora fuori dal controllo di Damasco. Diametralmente contrari sono invece coloro che fin dal primo momento si sono schierati in supporto di Bashar Al-Assad e del suo governo. Secondo questi ultimi dal 2011 il presidente siriano sarebbe vittima di un complotto internazionale finalizzato a sostituirlo con figure più vicine agli interessi occidentali. Nulla quindi giustificherebbe né nuove sanzioni né quelle già applicate.

È chiaro che tra le due posizioni ben pochi compromessi sono possibili. Ma forse ora più che mai un terzo approccio alla questione sarebbe fondamentale, soprattutto da parte dei paesi occidentali. Il punto è che se, da una parte, i crimini di guerra e le violazioni dei diritti umani del dittatore di Damasco rimangono, al di là delle follie cospirazioniste, oggettivamente i più documenti della storia, ormai altrettanto ben documentate sono anche le criticità relative al regime sanzionatorio applicato sia Usa e Ue. A denunciarlo sono da alcuni mesi anche voci rispettate dell’opposizione siriana, che hanno sottolineato i gravi effetti di alcune sanzioni sulla vita quotidiana della popolazione civile rimasta nel paese, già compromessa da otto anni di feroce conflitto.

È surreale vedere che nemmeno intorno a una questione così delicata e con effetti concreti sulla vita di milioni di persone non si riesca a coagulare una posizione ragionevole che sappia tenere conto della priorità umanitarie senza in alcun modo dimenticare le violazioni di un regime criminale.

E forse più che agli Usa, toccherà all’Ue avviare un dibattito serio su questo tema, in vista del rinnovo delle proprie sanzioni l’anno prossimo. Un dibattito serio che per essere tale deve tenere conto degli effetti diversi che diversi tipi di sanzioni hanno. Se da una parte, per esempio, le misure contro gli individui macchiatisi di crimini di guerra e che hanno contribuito alla macchina di morte del regime rimangono sacrosante (l’Ue ne ha allungato la lista all’inizio del 2019 per includere i businessmen che hanno fatto fortuna con l’economia di guerra), altre che impediscono interventi umanitari e la ripresa di una minima attività economica nel paese dovrebbero essere profondamente ripensate alla luce della realtà sul campo.

Assad infatti rimarrà dov’è, almeno nel futuro che oggi si può intravedere, una realtà profondamente ingiusta ma non per questo meno reale. Alla luce della quale un certo tipo di sanzioni rischiano di continuare a punire non tanto il regime in sé, ma soprattutto i siriani rimasti nel paese. E mentre è sacrosanto discutere di sanzioni e della futura posizione europea in proposito, perlopiù ignorata dal dibattito pubblico è la questione dei quasi 5 milioni di siriani che continuano a risiedere nei paesi limitrofi Turchia, Giordania e Libano. Tutti i sondaggi condotti dimostrano come la maggior parte di queste persone non abbia intenzione di rientrare entro i prossimi due anni, adducendo come prima motivazione l’incapacità – e la non volontà – del regime di garantire le minime condizioni di sicurezza. Da parte sua Damasco ha dimostrato di vedere in questi milioni di individui, spesso renitenti alla leva e provenienti da aree vicine all’opposizione, una popolazione difficilmente controllabile in caso di rientro di massa.

Contribuire a garantire un futuro per queste persone è forse l’unico mezzo a disposizione oggi dell’Europa per poter giocare un ruolo minimamente positivo nell’enorme tragedia che è diventata il conflitto siriano. Forse, invece di continuare a punire (o addirittura di inasprire le punizioni, come nel caso del «Caesar Act») contro i siriani ancora in Siria sarebbe opportuno iniziare a dibattere seriamente di un regime sanzionatorio in parte diventato inutile, quando non dannoso, e di come, al contrario, energie e risorse possono essere usare nel lungo termine per sostenere quei milioni di siriani che rimarranno verosimilmente a lungo fuori dalla Siria e i paesi che li ospitano.

*Ricercatore Ispi

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