Nel discorso pronunciato per il conferimento del Nobel nel 1978, Isaac Bashevis Singer dichiarò, con parole sicure, il bisogno di osservare attentamente le domande senza risposta e i paradossi del presente. Con accenti di smagato pessimismo e ironia malinconica, vedeva i presagi spengleriani di declino farsi concreti, in un contesto connotato da un’estrema aridità, privo ormai di una fede salda. La perdita di contatto con il testo biblico – per secoli fonte incontrastata di solidità e afflato morali, la cui robustezza sentiva ormai infragilita sotto l’assalto del materialismo e di una radicale sfiducia in Dio – gli sembrava proiettare il secolo XX in una luce incerta, così da farne un gigante senza fondamenta, percorso da un’insanabile debolezza, reso opaco dai fumi delle metropoli. Il retaggio etico proveniente dai secoli trascorsi era annebbiato, gli uomini del tutto esposti a una pulsionalità sbrigliata, sfiduciati e incostanti come mai.

L’ambiente americano che l’autore aveva sotto gli occhi dal 1935 si prestava bene a fornire un grandangolo sulla perdita di sacralità: la fusione, rapida e inarrestabile, di molti gruppi europei in nuove comunità, i legami recisi, la dimenticanza, l’apolidia sono i contorni di identità ridisegnate, che rincorrono il nuovo lasciando alle spalle ciò che è vecchio di secoli.

Il primo e il più americano dei libri
A questa mutilazione, Singer oppone il tratteggio di vividi quadri dell’origine, mai oggetto di contemplazione museale e sempre irti di contraddizioni, dove strade, vie, negozi, anche se piantati in mezzo al nuovo mondo, sono ancora quelli dell’Europa orientale, dove albergano le tante screziature di una vita formicolante, palandrane e cappelli a tesa larga che rasentano i cilindri e i pince-nez dell’assimilazione, scaccini e sensali di matrimonio che traversano le stesse strade dei cantori di sinagoga, dei talmudisti, dei santi taumaturghi.
L’America di Singer è molteplice eppure claustrofobica, concentrata per epitome nel West Side di Manhattan, dove l’American dream si impantana nelle angustie, nei masochismi, nei sensi di colpa di esistenze umbratili e tormentate. Questo l’intreccio di molta narrativa singeriana, la sua inconfondibile atmosfera, la rapida combinazione di rigore religioso e urgenza erotica, squallida prosaicità e ampiezze di luce cabbalistica, l’alchemico, delicato equilibrio tra speranza e disperazione. Il tutto contornato da un carosello di demoni, spiritelli, anime senza pace, dibbukim, eccentricità varie, a specchio di una modernità segnata da continue trasgressioni di soglie. Ed è questo il quadro che l’America conosce della scrittura di Singer: quasi senza eccezione, le tessere romanzesche che l’autore polacco pubblica tra La Famiglia Moskat del 1945 e Lo Spinoza di via del Mercato del 1961 sviluppano storie europee, anteriori al 1939, attraversate dalla descrizione di una cultura ebraica tradizionale, che contende il campo alla più disgregante e imprendibile modernità.

E tuttavia, anche altri registri e altre tessiture trovano spazio. Tra il 1957 e il 1958 Singer pubblica a puntate, scritte in yiddish, sul celebre foglio socialista Forverts, i molti capitoli che, circa dieci anni dopo la sua morte, sarebbero stati racchiusi nel romanzo, apparso in inglese, Ombre sullo Hudson: ripubblicato da Adelphi (pp. 633, € 24,00) a vent’anni dalla prima traduzione italiana, per la cura inappuntabile di Elisabetta Zevi e nella brillante traduzione di Valentina Parisi, è il primo romanzo di Bashevis Singer – insieme corale e fluviale – di argomento americano: forse, il più americano dei suoi libri, dove si trovano i semi di fondamentali opere successive, come Il Mago di Lublino, Nemici. Una storia d’amore e Il Penitente, di cui Ombre sullo Hudson è quasi la cellula originaria.

Una improvvisata liaison
Come conviene ai romanzi a puntate, genere europeo che nella stampa yiddish continuò ben oltre la sua scomparsa altrove, Ombre sullo Hudson ha un cast numeroso, introdotto al lettore, quasi per intero, in una lunga sezione d’apertura dove i personaggi compaiono a una cena nello Upper West Side di New York, dopo la fine del secondo conflitto, ospiti dell’ebreo polacco Boris Makaver, che ha ricostruito con successo la propria vita in America. Amici e parenti, tutti di origine e polacca e sopravvissuti o scampati allo sterminio, discutono di Dio e del mondo, in una entrée che ricorda, forse di proposito, l’incipit dei Buddenbrook, ma dove l’atmosfera è meno borghesemente impettita e più pruriginosa, a tratti persino isterica.

Una variopinta accolita di matematici con interessi nell’occulto, ex studenti di yeshivah trasformati in campioni di ateismo, seriosi filosofi negatori di ogni trascendenza, comunisti senza sbavature, si ritrovano impegnati a occuparsi delle cose prime e di quelle ultime, tra una fetta e l’altra di strudel. Tra loro, Hertz Grein, già studioso di Talmud, ora agente di borsa sulla quarantina, e la sua allieva di un tempo Anna Makaver, bella, attraente e malmaritata, riscoprono un’antica attrazione e lasciano moglie e marito per cominciare una nuova vita in Florida. L’improvvisa, e improvvisata liaison è la spina dorsale del romanzo, il granello di una narrazione che si srotola per seicento pagine, tra molti rivolgimenti, trame secondarie, personaggi comprimari, dove il filo è la ricerca di un senso, ogni giorno per quello successivo, previa riflessione sulle tragedie consumate in Europa e sulle residuali sopravvivenze nel nuovo mondo.

Hertz Dovid Grein, protagonista del romanzo è, proprio in questo senso, un paradigmatico uomo moderno, erratico antieroe, scettico rispetto a Dio e all’uomo. Spaesato, lotta per la virtù nella New York del dopoguerra, si aggrappa ai Dieci comandamenti come a una rupe ma fallisce lo scopo, causando il proprio male e quello altrui, per finire, tra una deriva e l’altra, nel quartiere ultraortodosso di Gerusalemme, ebreo osservante ma ancora e sempre sradicato. Diversamente da quanto accadeva nella Famiglia Moskat, Singer offre in questo romanzo una anti-saga familiare, dove la narrazione cerca, talvolta con affanno, di mantenere coesa la rotta di esistenze centrifughe, destinate allo sfaldamento.

Qualcosa in meno e in più
Chi conosce la scrittura di Singer ritroverà, in questa storia, molti dei suoi temi consueti: desideri sessuali, fantasie romantiche, volontà fiacche e coscienze infelici, conflitti tra autonomia creativa, anarchia morale e ricerca dell’autorità, oblio della tradizione, culto di falsi dèi insieme a sussulti messianici e sete di trascendenza.
C’è però anche qualcosa in meno, e qualcosa di più, in queste pagine tarde e crepuscolari, che scontano alcune innegabili défaillance estetiche tra cui una certa disorganicità, la tendenza esorbitante della trama e un tratto lievemente da soap opera. Singer, infatti, non è più l’impetuoso giocoliere che si destreggia tra stravaganze, spiritismi e un acuto senso del sacro sempre impastato alla più ciarlatanesca mantica, non è più il maestro di cerimonie che presiede alla selvaggia discordia degli elementi ammiccando enigmatico. Pur non privo di un umorismo talvolta anche caustico, Ombre sullo Hudson è un romanzo più amaro, più scuro: vi si sentono una sorta di cupezza morale e di angoscia, il timore di uno svuotamento sempre incombente.

Singer stavolta parla con voce cruda e impaurita, una voce che quasi si fatica a riconoscere. Forse privo della grazia incantata e della levità ironica tipiche delle storie più brevi, Ombre sullo Hudson è comunque un romanzo possente, precorritore di Saul Bellow nella dissezione minuta, in chiave insieme epica e filosofica, della moderna realtà urbana.

In queste pagine, Singer parla, più esplicitamente che mai, dell’identità ebraica, retaggio ineliminabile ma non per questo meno tormentato, e punto di ritorno per ogni fuga esistenziale. I sopravvissuti che affollano la storia percorrono i paesaggi stralunati di New York e di Miami a pelle viva, segnati dal senso di colpa per l’esserci ancora, divisi tra le intossicazioni della modernità e l’imperativo austero della tradizione, in bilico tra la carne e lo spirito, tra il peso della tradizione e la percezione della sua vacuità di fronte ai mali del mondo: «Credo nell’onniscienza di Dio», dirà Hertzl Grein in un serrato corpo a corpo con se stesso, «ma mi è difficile credere nella sua bontà. Ho cominciato a recitare le Diciotto Benedizioni, ma la lingua mi si imbrogliava in continuazione. L’altro giorno ho letto un articolo su uno di quei campi della morte, Majdanek o Treblinka. Come si fa a chiamare ‘misericordioso’ un Dio che permette questo? Perché in fin dei conti si tratta di un’opera Sua».