La via Krochmalna, a Varsavia, non odora di santità. Stretta tra il fallimento della prima rivoluzione russa e le trincee della Grande Guerra, la vita ebraica che lì si raduna è un intreccio di accattoni, prostitute, ricettatori, ruffiani, delinquenti a vario titolo. Yarme, tagliaborse e scassinatore provetto, è uno di loro. A trentadue anni, è già transitato quattro volte per il carcere, guadagnandosi un nome come agente nella tratta delle bianche. La sua compagna è Keyla, detta la Rossa, già passata per tre bordelli e tra le donne più richieste della città. Una vita che sembra procedere indisturbata sui binari paralleli della criminalità e degli affetti, finché non compare Max lo Storpio, già compagno di cella e forse amante di Yarme, ora arricchito nelle Americhe con traffici floridi e illegali. Figura ambigua e sfuggente, Max entrerà come un cuneo nella relazione tra Yarme e Keyla, turbandone gli assetti in un’oscura e spregiudicata girandola di doppiezze e reciproche finzioni che condurrà la vicenda lungo la china dello sfaldamento.

Sono queste le figure che popolano Yarme un Keyle, la storia di Isaac Bashevis Singer pubblicata a puntate tra il 1976 e il 1977 sulle colonne del Forverts, famoso quotidiano newyorchese di orientamento socialista e di lingua yiddish. A quarant’anni dalla pubblicazione seriale, la vicenda è chiusa in forma di romanzo, Keyla la Rossa (Adelphi, pp. 280, euro 20,00) e resa brillantemente in italiano da Marina Morpurgo che, seguendo la pratica invalsa e avallata dalla volontà dell’autore, ha lavorato sulla traduzione inglese, stavolta ferma a una prima stesura e mai pubblicata, colmandone l’incompiutezza nel ricorso all’originale yiddish. Per la cura di Elisabetta Zevi, il lettore italiano riceve così un inedito, secondo per tempo solo alla traduzione ebraica e parte di quell’ampio corpus di storie singeriane non ancora tradotte dallo yiddish.

Una Moll Flanders ebraica
Lontana dall’oleografia dello shtetl e dai ritmi dell’osservanza ebraica, altrettanto distante dalle vicende di demoni e spiriti cui Singer spesso inclina, Keyla la Rossa è una storia di gangster e prostitute, l’istantanea su un mondo a margine, dove astuzia e ingenuità, depravazione e tenerezza, rette vie e aberrazioni convivono in simultanea negli stessi vicoli e dentro gli stessi personaggi, mentre sullo sfondo vibrano tutti i nervi di una modernità tesa tra fedeltà alla tradizione e pensiero secolare.

Sesso e violenza, desideri omoerotici, alcool a togliere ogni inibizione, falsi giuramenti e testamenti contraffatti, piani delinquenziali per adescare ragazze e avviarle alla prostituzione oltre l’oceano: Singer impiega tutti gli ingredienti che, nella storia della ricezione, hanno indotto i critici a vedere in molta sua scrittura minore, contigua ai capolavori conclamati, un torbido che rasenta la pornografia, un’ossessione per il sesso e per l’amore clandestino, con diverse concessioni al filone della shundliteratur, la narrativa yiddish di gusto facile, che molto concede alle tinte forti e alla sensazione, con toni oscillanti tra il melodramma e il feuilleton. Ma la scrittura di Singer, anche quella minore, non è mai solo questo: la malavita della Varsavia ebraica in Keyla la Rossa non è monocolore, appiattita sullo schema logoro del trickster e del gangster. I criminali del racconto singeriano sono memori e nostalgici di un passato di devozione, di un’educazione religiosa coltivata nel bozzolo di famiglie pie, e tutti sono proiettati verso ravvedimenti e tentativi di buona condotta, spesso smentiti dai fatti prima ancora di maturare.

Figlio di un ebreo devoto, pur negando Dio e deridendo le usanze ebraiche, Yarme sa a memoria intere sezioni di trattati talmudici e gareggia nella conoscenza delle scritture con gli studenti di yeshivah. Allo spuntare delle tre stelle alla fine dello Shabbat, si fa cupo e silenzioso. Keyla – sorta di Moll Flanders ebraica ma, se non meno scabrosa, di certo meno temeraria, più sfortunata e sempre abitata dal dubbio – non trascura mai di accendere le candele in memoria dei genitori e si ferma sulla soglia della sinagoga per respirarne il calore e l’intimità. Persino l’infido e incallito Max vagheggia ipotesi di vita onesta, subito rintuzzate da nuove prospettive di losco profitto.

Un underworld insieme miserabile e assennato è quello che affolla le pagine di Keyla la Rossa, sempre pronto a trafficare fuori dalla legge, ma allo stesso tempo assorto in meditazioni di accento poco meno che sapienziale, quasi che a formularle fossero tanti piccoli Giobbe della strada, che incrociano i pensieri e dividono gli spazi con comunisti, anarchici, artisti, cospiratori, razionalisti, chassidim, rabbini di provincia, e con tutto il côté di una Varsavia del sottosuolo, dove serpeggia un pensiero difforme rispetto all’autoritarismo zarista. Nulla è risparmiato a queste umbratili figure: oscillazioni tra misticismo e diffidenza, incertezza fisica e metafisica, soprassalti della coscienza, tristezze brucianti, dubbi, rinnegamenti, iconoclastie, in una narrazione dove tutti i fili dell’interiorità concorrono a formare sprazzi di densa riflessione che squarciano la quotidianità del crimine, interrompendo i mille viavai per le strade di Varsavia. Come quando Keyla incontra e seduce Bunem, figlio del rabbino di quartiere.

Un legame più che tenue con il mondo dei padri e una devozione cigolante, Bunem è un libero pensatore che legge libri proibiti, sgrana meccaniche preghiere che la sua mente rifiuta, mentre passa l’intera tradizione ebraica attraverso il vaglio di un caustico razionalismo: «Che assurdità legarsi sulla testa e sul braccio delle scatoline nere e avvolgere delle strisce di cuoio intorno alla mano. Che senso aveva dire due volte al giorno: “Dio è buono con tutti e ha compassione di tutte le Sue creature” quando il mondo intero era un unico gigantesco mattatoio e il popolo scelto da Dio soffriva nei pogrom?».
Con Keyla, Bunem intreccia il corpo e la parola in nudi e serrati dialoghi, stringhe di pensiero che diventano scambi di battute dove la Rossa prova a trattenere qualche lembo di certezza che il ragazzo sistematicamente erode, lasciando emergere il più acuto disincanto: «Cosa ha ordinato Dio?» – «Non ordina niente, lui. Resta in silenzio» – «Quel santo di vostro padre ha detto che Dio perdona».
– «Mio padre in cielo non ci è mai stato»
– «Dio è lassù in cielo?»
– «Forse sì e forse no».

Quadri di disadorno nichilismo
Con Keyla la Rossa, Singer consegna al lettore un documento di una modernità insieme periferica e bollente, con molte venature di scoperto autobiografismo – la strada che è teatro della storia è la stessa caleidoscopica via Krochmalna dove l’autore abita per quasi dieci anni e che eleva a luogo mitico di una personale topografia; Reb Menahem Mendel, con la sua meticolosità talmudica, è un doppio del padre di Singer; il giovane Bunem, con i suoi radicali interrogativi sul mondo, un chiaro riflesso dell’autore stesso. Nella sua autonomia rispetto a ogni trama pulp, a ogni torbida storia da rotocalco, a ogni narrazione d’appendice, Keyla la Rossa contiene tutte le dissonanze e le torsioni identitarie di personaggi moderni che mostrano contraddizioni aperte e irrisolte, mentre la narrazione a tratti si asciuga e si rastrema in zone di disadorno nichilismo, quadri isolati di uno schietto, novecentesco smarrimento: «Dove si compra il biglietto della nave?», rimugina Keyla prospettando un imbarco per il nuovo mondo, «Dov’è il confine? Dov’è la nave? Se cadi in mare e ti mangiano i pesci, non puoi più risorgere».