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Sindrome del «grande centro»: la musica ha le ali tagliate

Sindrome del «grande centro»: la musica ha le ali tagliate

Improvvisi Nei cartelloni sono rappresentati soltanto quindici anni di musica, e poco altro...

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 30 maggio 2021

Alla fine degli anni Cinquanta Anthony Downs, un politologo statunitense di formazione weberiana, moderatamente left-wing, influenzato dalla teoria di Joseph Schumpeter sull’ «equilibrio economico generale», pubblica uno studio, Teoria economica della democrazia, che diventa rapidamente un classico della politologia. Si tratta, in sintesi, di una riflessione originale, e decisamente profetica, sul funzionamento delle ideologie politiche nelle democrazie liberali. La tesi del libro è illuminante: nei sistemi politici basati sul bipartitismo i due schieramenti dominanti, nonostante la regola dell’alternanza li renda in apparenza più dinamici, tendono inesorabilmente ad assomigliarsi l’uno con l’altro, smussando le reciproche differenze in nome della ricerca del consenso. Nei sistemi pluripartitici, invece, i singoli raggruppamenti conservano sì, gelosamente le loro differenze, ma in questo modo bloccano la trasformazione della società e lo sviluppo della democrazia. In entrambi i casi – conclude Downs – gli schieramenti politici, qualsiasi sia la loro matrice ideologica, non possono fare altro, per superare i loro limiti, che convergere verso il centro, tagliando le ali estreme: e così i partiti di destra diventano di centro-destra e i partiti di sinistra si trasformano in cartelli di centro- sinistra.

Una tendenza che si fa ancora più marcata quando le società a capitalismo avanzato entrano nelle ricorrenti crisi di instabilità che scandiscono il loro tempo storico: fasi di recessione, crisi finanziarie, crisi energetiche, ecc… Il paradigma del «grande centro» non riguarda soltanto le dinamiche sociali ed economiche delle democrazie liberali, ma si estende, molto spesso, ai settori sovrastrutturali dell’organizzazione sociale, ad esempio la gestione dei beni culturali e, in particolare, le attività legate allo spettacolo dal vivo: teatro, danza, musica.

È facile constatare come in questi settori, negli ultimi quindici anni, a partire grosso modo dalla crisi finanziaria del 2008, si stia verificando (e non solamente in Italia) un processo molto simile a quello descritto da Downs: ossia una corsa più o meno esasperata e inarrestabile verso un «grande centro», non politico, bensì, in questo caso, culturale. A che cosa corrisponde, infatti, nella storia dei fenomeni artistici, il paradigma politico del centrismo? A quello che con una certa approssimazione si può definire «repertorio». Ossia quell’insieme di opere, autori, tendenze stilistiche, codici estetici che ha conquistato un posto stabile nella programmazione corrente. E che appartiene dunque al cosiddetto mainstream.

In campo musicale, per fare un esempio, le opere teatrali, i concerti, le sinfonie, i pezzi da camera, compresi, grosso modo, nel sacro alveo che va da Mozart a Puccini. È facile constatare, scorrendo i cartelloni delle fondazioni liriche, dei teatri di tradizione, delle orchestre regionali, delle società dei concerti, dei festival, che il rifugio nel solco rassicurante del «grande centro» è pratica costante da almeno, non a caso, una quindicina d’anni. Sovrintendenti, direttori artistici, organizzatori si sono convinti che abbassando la percentuale di rischio, ossia l’incursione nei territori della musica non familiare, si garantisce alle singole istituzioni non tanto e non solo un afflusso costante di pubblico, ma anche una maggiore «tenuta» culturale. E così le ali estreme (la musica medievale, rinascimentale, barocca, e simmetricamente il Novecento storico, il secondo Novecento, la musica nuova) sono scomparse, con qualche eccezione, dai teatri e dalle sale da concerto. Mentre rimane intoccato e intoccabile, lo zoccolo duro del già sentito, del già visto, del già conosciuto. La persuasione diffusa nella maggior parte delle istituzioni musicali italiane è che la curiosità per lo sconosciuto, la scoperta del nuovo, l’offerta del non ancora familiare siano una minaccia per la sopravvivenza del sistema musicale. Senza rendersi conto che è vero, ed è sempre stato vero, l’esatto contrario.

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