Il 30 giugno prenderà il via da Cagliari la 33a edizione del Giro Donne, una classica a tappe per il ciclismo femminile. L’arrivo sarà a Padova il 10 luglio dopo che le 144 cicliste iscritte avranno percorso 900 chilometri lungo le strade d’Italia. Un grande evento sportivo che ha in Alfonsina Morini Strada una pioniera: la prima donna che sfidò il maschilismo sportivo partecipando al Giro d’Italia del 1924. «Una donna nata alla fine dell’800 nella bassa emiliana e cresciuta in una frazione nei pressi di Castenaso chiamata Fossamarcia e destinata a rimanere lì confinata finché, all’età di dieci anni, vide per la prima volta una bicicletta», racconta Simona Baldelli autrice del romanzo Alfonsina e la strada (Ed. Sellerio, euro 17). «Non so dove nacque la sua passione per il ciclismo, forse era innata. Posso solo supporre», continua, «che già allora avesse capito che il pedale era l’unica possibilità di fuga e quindi di realizzazione e felicità».

Baldelli, come fu possibile per una donna partecipare nel 1924 al Giro d’Italia?
Quell’anno vi fu un braccio di ferro fra la Gazzetta dello Sport e le società ciclistiche riguardo i compensi da riconoscere ai campioni come Girardengo e Bottecchia. Gli organizzatori non erano in grado di pagare le cifre richieste e i manager si rifiutavano di abbassarle. L’accordo non venne trovato. Il Giro non avrebbe avuto la presenza di fuoriclasse e, di conseguenza, rischiava di non suscitare interesse né nel pubblico, né da parte degli sponsor. Occorreva un elemento di richiamo. Per questo quando Alfonsina Strada tornò a chiedere di partecipare alla gara, contrariamente alle altre occasioni in cui le risposero di no, glielo permisero. Una donna fra i ciclisti avrebbe sicuramente fatto parlare del Giro.

Quel giro d’Italia – lungo 3.600 chilometri suddivisi in dodici tappe con un giorno di riposo tra una tappa e l’altra – fu vinto da Giuseppe Enrici. Alfonsina come si classificò e che rapporti stabilì con gli altri ciclisti?
A quel Giro si iscrissero in 108, al via partirono in 90 e arrivarono in 30. Alfonsina era fra questi anche se giunse, insieme ad altri due ciclisti, fuori classifica. Da principio non fu ben accolta, ma pedalata dopo pedalata seppe conquistarsi la stima e il rispetto dei colleghi, del pubblico e di gran parte della stampa.

Il fatto che Alfonsina volesse gareggiare contro dei maschi non era ben visto dalla stampa dell’epoca e nemmeno dal fascismo. A quali pressioni fu sottoposta e come ne uscì?
In realtà Alfonsina non voleva gareggiare contro gli uomini. Lei voleva semplicemente praticare la sua professione di ciclista. Ma il governo Mussolini aveva vietato le gare femminili e l’unica occasione per correre era quella di partecipare alle gare maschili. Dunque, la vera sfida fu contro il governo e il duce. Pressioni da parte della società, dei «benpensanti», moralizzatori, famigliari e stampa ne ebbe sempre, fin da bambina. Per nostra fortuna non si è lasciata schiacciare dai giudizi, dai pregiudizi, dalle dita puntate e ha tirato dritto.

Alfonsina Strada era una idealista, una donna che non si poneva limiti o cos’altro?
Io credo che fosse semplicemente una persona che esigeva quel pezzetto di felicità a cui tutti avremmo diritto per il solo fatto di essere stati chiamati al mondo.

C’era un legame tra Strada e altre donne che in quel periodo si battevano per la parità tra uomo e donna nello sport?
Forse né Alfonsina né le altre sportive dell’epoca avevano coscienza di battersi in nome di una parità. Atlete come Alfonsina Strada, Giuseppina Carignano o Rosetta Gagliardi, solo per citarne alcune, cercavano soprattutto la realizzazione di un desiderio naturale e personale. Altri aspetti, ritengo che siano una nostra proiezione a posteriori poiché siamo consapevoli, anche da un punto di vista sociale e politico – nel senso della polis – del dibattito scaturito in seguito sui temi delle pari opportunità. Cerco di chiarire il mio punto di vista con un esempio: Cristoforo Colombo mentre invertiva la rotta verso le Indie, non si prefiggeva di scoprire un nuovo continente, semplicemente rispondeva a una spinta interiore, una personale convinzione che ci fossero alternative di navigazione. Ecco, quelle atlete volevano semplicemente un «altro» per sé, che non fosse la solita iconografia di angeli del focolare. D’altra parte, il movimento delle suffragette, su cui fondò in parte il movimento femminista, nacque in Inghilterra alla fine dell’Ottocento, ma si radicò in maniera importante in Europa intorno alla fine degli anni ’20, quando Alfonsina aveva già preso parte a due Giri di Lombardia e al Giro d’Italia. E in Italia ebbe una battuta d’arresto per tutto il ventennio fascista. Non dimentichiamo poi che le donne che vi prendevano parte avevano un alto grado di consapevolezza politica, provenivano in maggioranza da fasce medio alte della popolazione, erano istruite, appartenevano a classi sociali elevate. Caratteristiche che Alfonsina certo non possedeva.

Dopo quel giro d’Italia partecipò ad altre competizioni ciclistiche e con quali risultati?
Nel 1924 Alfonsina Strada aveva già 33 anni, moltissimi per un’atleta all’epoca. Da un punto di vista agonistico, non poteva fare di più; e in ogni caso non dimentichiamo che il governo Mussolini aveva sospeso le gare ciclistiche femminili. La partecipazione al Giro le diede però una fama internazionale che le fu utile per partecipare come vedette e attrazione sportiva in teatri, circhi e riunioni ciclistiche in tutta Europa. Inoltre, nel 1938 conquistò a Longchamp (Francia, ndr) il record dell’ora femminile non ufficiale pedalando alla velocità di 35,28 km/ora.

Come fu la sua vita?
Da un punto di vista umano e personale, proseguì fra alti e bassi. La morte in manicomio del primo marito, Luigi Strada; un secondo matrimonio con Carlo Messori, ex ciclista; brevi periodi floridi da un punto di vista economico, molti quelli di ristrettezze. Ma non abbandonò mai del tutto il ciclismo. Con Messori aprì un’officina di biciclette frequentata da ciclisti importanti, Fausto Coppi fra questi, che andavano lì a rifornirsi di copertoni e pezzi di ricambio e chiedere consigli. Lei e il marito inoltre introdussero al ciclismo agonistico molti ragazzi della periferia di Milano.

Lei scrive che se n’è andata da questa Terra il 13 settembre 1959 mentre il Luna 2, la sonda spaziale russa, raggiungeva la luna e che ciò «sembra un’indicazione per tutti noi». Perché?
Attraverso la vita di Alfonsina ho voluto raccontare la lotta dell’essere umano contro il proprio limite, sia fisico che mentale. Fino a quel 13 settembre del 1959 la luna era una meta irraggiungibile. Da decenni le superpotenze erano impegnate in una contesa per la conquista. La luna, nell’immaginario collettivo, era il punto irraggiungibile. Lassù scappa il senno di Astolfo, salgono le nostre invocazioni laiche. È il nume pagano che influisce su ragione e sentimento. Alfonsina è morta negli stessi minuti in cui il Lunik 2 toccava il suolo lunare. Mentre se ne andava, ci ha detto: ecco, quello che consideravamo il limite invalicabile, è stato toccato; a partire da questo momento l’orizzonte è più vasto, i confini più larghi. Possiamo fare sogni più sconfinati.