Da una bottiglia di whiskey, o scotch whisky se di provenienza scozzese (impareggiabile, dal più etereo Caol Ila dell’isola di Islay ai magistralmente torbati Talisker, Ardbeg, Lagavulin…), si spillano circa trenta bicchieri da degustazione. Da calcoli artigianali si ricava che, secondo Georges Simenon – il quale, come direbbero al Quai des Orfèvres, sapeva il fatto suo – non basterebbe il litraggio di tre intere bottiglie di whisky, una bottiglia di rosso di Bordeaux, e una «magnum» di Champagne, mescolate nell’arco di quattro giorni, per soddisfare il fabbisogno di un uomo medio che accetta di «guardarsi allo specchio senza pietà».

È il disastroso bilancio che si estrae (matita alla mano) dall’esperienza del protagonista di La prigione, l’ultimo roman dur del maestro di Liegi edito da Adelphi nella traduzione di Simona Mambrini («Biblioteca», pp. 170, € 18,00), che nel centinaio di ore nelle quali si dipana la trama manda giù circa ottanta bicchieri, perlopiù di whiskey americano – perché a quest’uomo difetta, come spesso capita in Simenon, il senso del bello –, distribuiti in razioni doppie, quasi sempre ordinate al bancone con la naturalezza di chi va al patibolo («un doppio, cocco»; per completezza statistica: quando il narratore resta nel vago – «si versò un po’ di whisky» –, si è considerata una sola porzione; quando dice «aveva ordinato altre tre o quattro volte», è stato calcolato 3,5×2, perché si tratta di «doppi»). E se bere in tali quantità è uno sport estremo almeno quanto l’altro – quello di contemplarsi improvvisamente soli e indifesi, privi di tutte le maschere con le quali un uomo può saturare il vuoto della propria vita –, si direbbe che il suddetto protagonista, Alain, regga comunque meglio la prima e più corporea attività.

I quattro giorni maledetti cominciano per lui quando – una piovosa notte d’autunno – viene a sapere dalla sempre troppo malinconica polizia giudiziaria di Parigi che sua moglie ha ucciso la propria sorella, in passato amante di lui. Il movente si chiarirà nel corso delle indagini, che restano tuttavia sullo sfondo, mentre il romanzo segue da vicinissimo il disfacimento del fortino esistenziale di Alain, che passa notte e giorno a bere e girovagare per la città, tra sporadici dialoghi con l’avvocato, il magistrato, il vedovo-cognato, e una ridda di baristi sempre più perplessi.

Il profilo psicologico e sociale del giovane uomo, tutto concentrato sul culto dell’immagine di sé tipicamente ascritto alla nuova borghesia degli anni sessanta in piena espansione economica, sembra incuriosire in particolar modo il sessantacinquenne Simenon (il romanzo esce nel fatidico 1968). Artefice e allo stesso tempo prodotto esemplare di quella vacua medietà che cominciava a infiltrare allora la società dei consumi e le sue propaggini culturali, Alain è infatti giornalista e direttore di una rivista illustrata, patinata ma non troppo, ammiccante ma celata sotto le foglie di un profilo «alla mano», dal nome emblematico: «Toi». Il giornale conta su milioni di lettori e Alain è diventato, grazie alla sua idea editoriale, ricco sfondato. Sembra quasi di intravedere, nel suo ritratto, l’antesignano dell’odierno creatore di start up, che mangia le sue portate «biologiche» sorridendo a favore di camera, davanti a schiere di followers, ignari o forse complici del suo perfetto cinismo; Alain in salotto ha il «mobile bar», e gli scaffali di legno «laccati di bianco», raggiunge la casa di campagna in Jaguar, e il suo pied-à-terre a Parigi è dotato di vista panoramica sui tetti grazie alla enorme parete-finestra. Con i suoi accoliti, a volte, scambia un «Sorry», perché «capitava che parlassero in inglese» (perfidie di Georges Simenon), e ricorre spesso a espressioni volgari e gratuite. Siamo lontani dagli interni borghesi della Parigi anni trenta, eppure il dramma della Prigione propone la consueta, inesorabile spoliazione del manichino umano prescelto, che da figurina più o meno vincente, più o meno stabile, viene via via denudato di ogni ammennicolo, con gelida perizia, fino a mostrarsi nella sua fragilità, e persino nella sua innocenza (quasi sempre i personaggi finiti nelle grinfie di Simenon corrono con la memoria, al culmine della disperazione, a scene della propria infanzia, e Alain non fa eccezione).

La notizia della morte della cognata, e l’impassibilità glaciale della moglie nei suoi confronti durante l’incontro in cella, svuotano di senso qualunque autonarrazione. La spersonalizzazione delle relazioni, esibita dalla sistematica eliminazione dei nomi propri, non è che il sintomo più vistoso della violenza con la quale Alain si è servito degli altri fino a quel momento, chiamando tutti, comprese le molte amanti, «cocco» e «cocca» (lapin, nell’originale), «bello mio» (petite tête), e sua moglie, ormai candidata ergastolana, «Micetta» (Chaton). Per sostenere questo album di immagini mute, devitalizzate dal suo narcisismo, bere e fornicare in continuazione sembra non bastare più, e l’uomo si riscopre solo. Né la cura da cavallo a base di distillato del Tennessee, naturalmente, potrà salvarlo. Nel periodo «classico» di Simenon, almeno, prima di consegnarsi all’abisso, i protagonisti si congedavano con un bicchiere di quello buono. Alain, invece, quando il povero vedovo gli offre un sontuoso «Armagnac invecchiato», tira una boccata di fumo dalla sigaretta, e sospira: «No, grazie».