Simenon, perseveranza maligna del naso che cola: un limbo, una tragedia
Scritto nel 1933, «Il pensionante», da Adelphi Fuori c’è solo freddo e un cielo «giallastro»... Lo spazio dell’omicida è anonimo, ma intriso di dettagli percettivi
Scritto nel 1933, «Il pensionante», da Adelphi Fuori c’è solo freddo e un cielo «giallastro»... Lo spazio dell’omicida è anonimo, ma intriso di dettagli percettivi
A mettere in situazione la tragedia, nei romanzi di Simenon, è spesso l’ostinazione di un clima o di uno stato di salute, è la perseveranza maligna e strutturale degli agenti esterni – pioggia o neve, più di rado sole e arsura – e della malattia sia pure banale come un raffreddore ma sfiancante. Questo può bastare, fin dall’inizio, a creare l’intero teatro dell’azione e a contrassegnare il protagonista, a farcene subito sospettare un destino di oppressione. All’implacabile umidità esterna corrisponde un naso che cola, tumefatto, arrossato, irritante, deprimente. «C’è puzza di malato, qui», è la battuta con cui entra in scena una giovane entraîneuse, Sylvie, nella camera d’albergo di un uomo febbricitante, Élie Nagéar, Il pensionante (traduzione di Laura Frausin Guarino, Adelphi, pp. 167, euro 18,00). Si sospetta subito che non guarirà, o che della sua eventuale guarigione non ci verrà raccontato nulla: la febbre essendogli divenuta consustanziale, almeno nel processo che fatalmente lo porterà al dramma. Le certezze personali di Élie sono minate, si sente «indifeso in un universo ostile». Fuori c’è solo freddo, neve che diventa fanghiglia, e un cielo «giallastro», malato a suo modo. Lo spazio descritto da Simenon in questo romanzo scritto nel 1933, per molti versi abitato da figure che sono stereotipi nella sua narrativa – un mondano di buona famiglia in difficoltà economica, un’entraîneuse disinvolta e presente a sé stessa, un ricco finanziere, una famiglia di provincia – sembra caratterizzato con particolare finezza. È uno spazio sospeso, come sospeso e indefinito è il tempo: quando Élie si sveglia, alle undici del mattino, a Bruxelles i lampioni sono ancora accesi, così le luci della hall e i globi al Bon Marché: «non era né giorno né notte». Il romanzo si svilupperà come in un limbo, malgrado i molti e puntuali dettagli percettivi: la casa in cui Élie cercherà rifugio come pensionante, dopo aver commesso il delitto, è anonima, come tutte le altre, in una zona che non è né campagna né città; le sue finestre sono sempre appannate dal vapore, il paesaggio esterno è sfocato. Neanche il delitto è stato commesso in un luogo geograficamente certo: è sul treno notturno tra Bruxelles e Parigi che Élie ha seguito un grasso olandese pieno di banconote, è lì che l’ha colpito a morte nel sonno. Una guardia della dogana dirà che l’assassinio è stato compiuto dentro il confine francese, e tanto basta a paventare la pena di morte che in Belgio era già stata abolita.
Il pensionante, come L’assassino, scritto da Simenon poco dopo, nel 1935, offre subito il delitto e subito il colpevole. Al lettore, che non deve ricostruire fatti, non rimane che seguire il precipitare delle circostanze percorrendone l’atmosfera ovattata e ottundente. La nebbia è in primo luogo quella che avvolge Élie, la cui intelligenza delle cose appare smussata, i ricordi vaghi, come se fossero di altri, e la volontà fiacca: non c’è neanche un momento esatto in cui decide di colpire la sua vittima. Il fango è quello delle strade in cui la neve si scioglie e Sylvie cammina male sui tacchi alti, mentre «gocce di acqua sporca le schizzavano sulle calze come gocce di grasso». Al tempo stesso, evidentemente, è un fango di desolazione morale, mancanza d’intraprendenza, debolezza strategica. Élie non ha un piano: a muoverlo l’avvilimento di un affare andato a male, l’improvvisa mancanza di denaro, il raffreddore e l’impotenza, la sofferenza per tutto il disprezzo di cui lo investe Sylvie. Di sé stesso sembra sapere troppo poco, se solo dopo il delitto – topicamente – si accorge di avere «il naso storto e il labbro superiore troppo sottile».
I primi capitoli hanno un sapore «di treno e di febbre», come l’acqua grigiastra che Élie beve appena dopo l’assassinio, in un lavandino sporco di fuliggine. Escludendo le pantofole di pelle azzurra che Sylvie compra per sua madre, l’unico dettaglio cromaticamente carico, in quelle pagine, è la lucente arma del delitto. Dopo aver venduto a un gioielliere un pezzo d’oro, Élie sceglie una chiave inglese da «una vetrina dov’erano esposti degli utensili che brillavano come gioielli». Un modo simbolico, si direbbe, per tornare in possesso di oro. L’acquisto è stato preceduto da una sorta di tic affiorato direttamente dall’inconscio, da una necessità occulta, e fattosi presagio: «la sua mano destra, affondata nella tasca, faceva il gesto di stringere qualcosa». A completare i dettagli simbolici: Élie colpisce solo quando la chiave inglese ha assunto la temperatura della sua mano, quasi protesi aggressiva, finalmente, fusa a un corpo magro, indebolito e povero. Per nascondere l’amante, Sylvie lo spedisce a pensione dalla madre, a Charleroi. Lì la galleria dei personaggi si amplia, i ritratti si fanno più vari e i segni più marcati, in accordo con la provenienza sociale di ciascuno. I locali notturni di Bruxelles cedono a un interno familiare modestissimo e affaccendato, in cui perpetuamente aleggia odore di caffè e di minestra che bolle sulla stufa. L’ospite di riguardo – così titolava Mondadori nella prima traduzione italiana, nel 1962 – si attirerà solitudine e odio da tutti, fatta salva la madre e l’ignaro marito ferroviere. Le dinamiche relazionali si fanno squilibrate e ossessive, oscillanti tra fiducia e sospetto, viscerali. Lì, dove le case non formano isolati, ma sono cellule poco aggregate in mezzo a terreni incolti, le cromie tornano emblematicamente a separarsi: lo spazio ha campiture manichee, senza sfumature, le strade sono «bianche di gelo, le case nere di carbone». Nero è pure il vestitino di lana dell’acerba sorella di Sylvie. Solo gli abiti di seta delle entraîneuses hanno tinte sgargianti, in accordo con le luci mutevoli che nelle sale da ballo creano «l’impressione di evadere dalla vita reale». Invece «la realtà era la neve» scura e vischiosa sui marciapiedi o a falde sui mucchi di carbone, come «squame di eczema»; e la febbre, il sudore malsano, i «binari lucenti» e tutti gli altri rimandi – quasi richiami pavloviani di tempi e luoghi sospesi, e di colpa – ai treni, alle stazioni e alle sale d’attesa.
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