Il primo dettaglio notato dal cugino Hans, all’arrivo Chez Krull, è una sovrapposizione di trasparenze: «una réclame trasparente sulla porta a vetri dell’emporio» che subito rivela l’attività commerciale lasciando intuire, tuttavia, la fragilità, la vulnerabilità dell’ingresso. La mancanza di protezione di una casa troppo chiusa in sé stessa e incapace di tutelarsi. La costruzione sorge in una periferia francese, presso un canale – ambientazione carissima a Simenon –, e la vita familiare, nella sua introversa routine, è scandita dalla vendita delle merci e dalla mescita di liquori a marinai e cavallanti. L’emporio confina con la cucina che è «il centro della casa». Dappertutto odori di cordame, spezie, catrame norvegese. Il romanzo scritto da Simenon nel 1938 La casa dei Krull, ora tradotto ex novo da Simona Mambrini per Adelphi («Biblioteca», pp. 210, € 19,00), si apre con una iterazione battente, percussiva, si direbbe, subito rivelatoria: il cognome tedesco Krull ripetuto quattro volte in tre righe. Questa insistenza smaccata – peraltro rara nella scrittura di Simenon – sulla soglia dell’emporio e del romanzo, sbalza subito la diversità (sono tedeschi!), cui si devono la discriminante, l’emarginazione, e lo strapiombo sulla tragedia.
Tutt’intorno al «clan» marinai che governano chiatte, chiuse che ne scandiscono il viaggio, biancheria ad asciugare sui ponti dei barconi, donne dimesse e sempre assiepate dai loro marmocchi. La città è lontana: suo unico segno lo scampanellio del tram giallo. Al Simenon degli anni Trenta, quello che voleva scrivere «romans durs» – romanzi veri, non solo polizieschi –, poche linee descrittive, un oggetto, un aroma, un esercizio al pianoforte o un attrezzo per pescare di frodo bastano a creare l’ambiente e sprofondarvi gli attori. Nel suo oliato e limpido congegno da pièce, da esistenziale, dialettica, camera della tortura, La casa dei Krull è un romanzo più rumoroso e affollato di altri. Il suo tratto peculiare è la dinamica delle voci, l’attrito tra un esterno pullulante di figure vacue e stolte, diffidenti, malevole, e un interno in cui il tempo è fermo e il governo della casa austero e privo di lusinghe. La madre, Maria Krull, ha un «aspetto solido, coriaceo», che già appartiene anche alla figlia maggiore non sposata, Anna; l’anziano padre, Cornélius, sempre taciturno e all’apparenza impermeabile all’esterno, intreccia vimini in silenzio o fuma «una lunga pipa di porcellana, con gli occhi socchiusi e la barba rigida come quella della statua di un santo». Il figlio Joseph passa le giornate nella sua camera a scrivere la tesi in medicina, è «noioso» e «paludato», e inesperto d’amore; la sorella più piccola, Liesbeth dal naso affilato, si esercita al piano e studia armonia, vittima oleografica delle mire seduttive di suo cugino. È lui, Hans, fresco di Germania, a turbare una famiglia così classica, e così classicamente descritta. Al suo brio, alla sua disinvoltura si dovrà la progressione del caso (o del destino): tappe scandite come passaggi stagni, di chiusa in chiusa. Hans comprende subito la debolezza emotiva di Joseph che non riesce, talora, a controllare il tremore delle mani. È uno scroccone contafole, Hans, ma coglie nel segno. Sa vedere le coppie di uguali resi diversi dalle esperienze di vita: la severa zia Maria e la beona Pipì; il cugino quasi dottore e lui stesso dongiovanni perdigiorno.
Ma nella Casa dei Krull il punto di vista è slittante, non è solo quello, pur primario, di Hans: c’è un narratore esterno e onnisciente che gioca a rimpiattino col suo personaggio – ne sono prova le prolessi e le incursioni nei pensieri di tutti gli altri. È una messa in scena, questo romanzo, algida e recitata sulla polvere di un palco disadorno, investito da luci crude: il «fattaccio» accende il meccanismo della tragedia. Una ragazzina violentata e uccisa fa esplodere la diffidenza che porterà a un finale senza espiazione né catarsi. È veramente un innesco, la mingherlina Sidonie: nessuno, dopo l’autopsia, neanche la madre, si occupa della sua sepoltura. È una scintilla senza corpo, potremmo dire, se non fossero così carichi di carne, e macabri, gli sforzi per tirarne a riva il cadavere con la gaffa. Le accuse montano, il paesaggio da azzurro che era diviene minaccioso – le chiatte sembrano «enormi animali accovacciati nell’acqua» –, un’amichetta di Sidonie incarna la volgarità delle accuse: è pettoruta e procace, «tracagnotta, indossa un ridicolo cappellino rosso che la fa sembrare uno gnomo». Fino alla fine del romanzo ridotta a una maligna sineddoche spregiativa, «il cappello rosso», va a sparlare davanti alla casa dei Krull, a fare, disgustosa, «un giro di pista, come un clown».
Accorto narratore, Simenon lascia che «la prima ferita inferta alla casa» schianti la vetrina, trasparente riflesso dell’incipit. Compaiono subito, poi, i connotati angosciosi del perturbante: «gli oggetti familiari erano diventati irriconoscibili». La casa radicalizza la sua estraneità a dispetto dei soprammobili vinti «alle pesche di beneficienza» da lindo salotto di poesia crepuscolare. Al pari di altri stranieri – nel 1956 Jonas Milk, il mite e timido piccolo libraio di Archangelsk sospettato di perversione e d’omicidio – anche i Krull, il vecchio zitto come un filosofo o un idiota, e l’ancor più solo e diverso Hans, allo sguardo di ottusi e prevenuti incarnano «lo Straniero, la causa di tutti i mali del mondo». Nel 1938 era chiaroveggenza, oggi rendiconto.