Simenon, la vertigine dell’infanzia
Lajos Lengyel, Shadow, 1930
Alias Domenica

Simenon, la vertigine dell’infanzia

Novecento francese La morte di uno zio è uno dei fattacci che turbano i ricordi del dottor Malempin, protagonista del romanzo scritto in Alsazia nel 1939
Pubblicato un giorno faEdizione del 27 ottobre 2024

Nella sua vastità, può darsi che Georges Simenon offra anche una via di uscita dalla incontrollata proliferazione del racconto familiare cui si assiste nella narrativa di oggi, tra ripiegamento narcisistico e impossibilità più o meno celata di ritagliare una autonomia per il proprio sé rispetto agli amati (o odiati) genitori. La soluzione proposta da Simenon a questo fenomeno contemporaneo sarebbe all’incirca la seguente: non raccontate della vostra famiglia, salvo che tra i suoi ranghi non vi sia almeno un morto ammazzato per mano di uno degli altri parenti.

La morte di uno zio è uno dei fattacci, e certo non il solo, che intervengono a turbare i ricordi d’infanzia di Malempin, protagonista eponimo dell’ultimo titolo dello scrittore belga riproposto da Adelphi nella «Biblioteca» (traduzione di Francesco Tatò, pp. 142, € 18,00) dopo essere già apparso nella lussuosa collana «La Nave Argo» (Pedigree e altri romanzi) e nel 1960 da Mondadori con il titolo Ricordi proibiti.

Nella voce del narratore in prima persona c’è un’impellenza febbrile, allucinata, che egli non sa spiegarsi e che fa scorrere il testo, quasi un racconto lungo, a velocità palpitante, incardinato a un monologo interiore che diventa narrazione e contiene al suo interno tutte le scene e i dialoghi del suo «romanzo di famiglia». L’insolito impianto «statico» rende Malempin – la cui prima edizione Gallimard è del 1940 – un titolo eccentrico e prezioso, che chiude idealmente la ricca e felice produzione del Simenon anni trenta: il dottor Édouard Malempin siede accanto al figlio, un bambino fragile e malato, che sembra mostrare i segni di una difterite potenzialmente letale. Chiuso nella camera buia, nell’aria stantia di casa sua, il dottore sprofonda nelle reminiscenze, e riattraversa i momenti salienti della sua infanzia. Il campionario sarebbe quello tradizionale: la «lingua Malempin», fatta di soprannomi misteriosi, allusioni impenetrabili; le zie acide, il padre anaffettivo, i non detti, i problemi di debiti, i tradimenti, i desideri incestuosi. Solo che poi arriva il fattaccio: uno zio morto (questioni di eredità?). E il povero Édouard è costretto a vivere sulla propria pelle l’antico adagio secondo il quale i bambini «sanno», e gli adulti si comportano ingenuamente come se non se ne accorgessero.

«Sono avviluppato dalle radici che sto dipanando e che vedo spingersi sempre più lontano, sempre più aggrovigliate», dice Malempin: i fatti gli sono ben chiari, ma non è quello che gli serve a impedirgli di comportarsi come un fantasma che vive senza coscienza, sospeso, lontano da tutto quel che gli accade intorno, inclusi moglie e figli («Gli unici anni di vita reale sono gli anni dell’infanzia», sentenzia). Una strana malattia dell’anima che il dottore non riesce a diagnosticare a se stesso, nonostante la puntuale anamnesi – raccolta per iscritto in un quaderno –, e che mostra i primi sintomi quando, ormai già in cammino verso il distacco psichico da tutto quel dolore, quella confusione, e quella mancanza di empatia che aleggia sopra la sua testa, Édouard si aggira nei campi attorno alla fattoria in cui è cresciuto, e trova un ammasso di cenci che potrebbe essere il cadavere di suo zio: sul momento si agita, corre lontano, ma poi tornerà a giocare proprio lì attorno, via via più indifferente. Il suo congelamento emotivo inquieta, via via più profondamente, il lettore, che se conosce il suo cliente, sa già che non può aspettarsi un lieto scioglimento: Malempin è condannato (a un segreto esilio da se stesso, e dal mondo).

Per i dettagli d’ambiente e dei volti, e per la descrizione di scene appena accennate, Simenon esercita qui il suo magistero con una misura specifica, una leggerezza del tocco che rende tutto ancora, agli occhi del narratore e quindi del lettore, velato – in quel modo in cui solo i ricordi di infanzia sono velati –, eppure terribilmente eloquente. «Sono trent’anni che cammino in punta di piedi – ammette Malempin –, (…) perché ho capito che tutto è fragile». Quello che aveva la parvenza del romanzo familiare dunque altro non è che una nuova variazione sul tema dell’homme nu, «l’uomo nudo», osservato cioè sotto una lente che lo spoglia dei paramenti sociali e psicologici: ossessione alla quale Simenon non smise di dedicarsi per tutta la sua vita di scrittore.

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