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Tutti pazzi per LinusPupazzetti, però con un’anima oscura: vive tra questi estremi la fumettista Silvia Ziche, tra le autrici italiane più apprezzate ed esperte in attività. Nata a Thiene nel 1967, debutto su Linus alla fine degli Anni ’80 e poi tanta Disney e tanta satira, con storie e vignette settimanali per Topolino e Donna moderna. Fino ai romanzi grafici per Feltrinelli Comics e al recente La gabbia, un fumetto per sorridere amaramente sul male di vivere. «Ho sempre indagato i cortocircuiti dei rapporti umani e la capacità che abbiamo di fraintendere e di fraintenderci, cercando di trovare un modo divertente per raccontarli», attacca l’autrice. «Ma solo di recente mi sono chiesta perché m’interessassero tanto le relazioni non riuscite. E ho capito che la cosa partiva dalla mia relazione con mia madre, che non era andata benissimo e in qualche modo mi aveva indotta, per tutta la vita, a mettere insieme storie complicate. Allora ho cominciato ad analizzare meglio la situazione cercando ricordi, leggendo opere sul tema, diciamo rigirando il coltello nella piaga: faceva ancora male. Una volta deciso che poteva nascerne una storia, ho capito subito che il tono non poteva essere allegro. Ma non ho abbandonato del tutto l’umorismo».

AL CENTRO del discorso, come in tanti lavori precedenti, un nucleo narrativo sfaccettato e argutamente citazionista. «Nei miei libri finisce quello che vivo, quello che mi raccontano amiche e amici, quello che vedo, quello che leggo: poi cerco un denominatore comune, frullo tutto e invento situazioni verosimili», continua la sceneggiatrice e disegnatrice veneta. «In questo caso ho preso quasi tutto dalla mia esperienza personale. Però non racconto nessun fatto reale, né racconto la persona che è stata mia madre. Ho cercato di distillare il disagio e di concentrarmi solo su quello. I personaggi che metto in scena quindi non sono veri, come non è autentico il luogo in cui la storia si svolge: servono solo per dare un corpo al malessere». Al centro del racconto, come in molti suoi lavori, un nucleo narrativo sfaccettato e citazionista

Un lavoro che ha comportato un gran dispendio di energie soprattutto in fase di scrittura. «La cosa più difficile è stata capire che cosa raccontare, e come: con che voce, con che segno. Il tempo che ho impiegato per questa fase preliminare è stato molto lungo. Ho preso tantissimi appunti, ho letto romanzi, saggi, visto film che indagavano l’argomento. Ho capito prima quello che non avrei voluto fare, cioè esporre una persona reale raccontandola per filo e per segno. A questo punto la maggior parte del lavoro era fatto, sceneggiare il libro si è rivelata una cosa abbastanza veloce». Ed è personalissimo l’approccio di Ziche nei confronti della scrittura, affinata in anni di collaborazioni con autori come Tito Faraci, Vincenzo Cerami e François Corteggiani. «Tre grandissimi sceneggiatori, che mi hanno dato una grande voglia di superare le mie capacità per essere all’altezza di quanto avevano scritto. Il regalo più grande che mi hanno fatto è stato proprio quello di mettermi nella condizione di volermi migliorare, di voler crescere». “Spesso un dolore che non trova sfogo, può diventare anche una patologia complessa. Una bomba a orologeria che passa di generazione in generazione”

Silvia Ziche

SOPRATTUTTO, di costruire un metodo che consente di seguire in parallelo scrittura e disegno, un dialogo continuo che dà ai fumetti di Ziche una coerenza e una profondità di campo uniche: «Le mie sceneggiature sono veri e propri storyboard, e quindi mentre scrivo definisco graficamente i personaggi. In La gabbia ho volutamente utilizzato il mio solito segno, buffo e leggero, non ho cercato di renderlo un po’ più realistico come con il precedente Diabolik Sottosopra… Mi serviva anche questo per prendere le distanze, per mantenere la sensazione di irrealtà». Un feeling ottenuto anche con la scelta poco usuale del bianco e nero, ormai una rarità nel mercato italiano. «In questa storia si parla di relazioni non riuscite, di malessere, di depressione. Trovo che queste situazioni non abbiano colori. Solo bianco, che è vuoto più che luce, e nero come il pozzo di disagio in cui si cade quando non ci si sente amati, e di conseguenza non si riesce ad amare». Ma come il precedente lavoro per Feltrinelli E noi dove eravamo, anche La gabbia ha anche un marcato sottotesto politico: «Sì, è un richiamo a quanto raccontato più dettagliatamente in quel volume, il malessere della maggior parte delle donne del passato anche recente per l’impossibilità di essere indipendenti, di studiare, di realizzarsi».

UN MALESSERE arrivato fino a noi: «Spesso le nostre mamme e le nostre nonne non avevano le possibilità che abbiamo noi adesso. Molte donne che hanno avuto la sfortuna di nascere in Paesi meno liberi del nostro ancora non le hanno. Questo vuole dire che noi siamo fortunate, ma abbiamo anche una grandissima responsabilità: quella di usare al meglio questa libertà. Non prendersi la responsabilità di usare le possibilità che abbiamo mi sembra uno schiaffo alle nostre antenate, che vedo rivivere nelle ragazze iraniane, e in tutte le ragazze e le donne che lottano per i loro diritti. È importante però lottare con forza e determinazione ma senza mai cedere al vittimismo, che non ha mai portato niente di buono». E un dolore che non trova sfogo può diventare anche una patologia che passa di generazione in generazione. «Una cosa che racconto nel libro è anche che un malessere che non ha le parole per essere espresso è una specie di bomba a orologeria, è destinato a essere lasciato in eredità ad altri. Penso che la cultura, la consapevolezza, e un grande lavoro su se stessi sia l’unico modo per metterci nelle condizioni di non ripetere il disagio, di riuscire a metterci nei panni degli altri, di essere empatici e rispettosi».
E a proposito degli altri, dallo sfondo emergono i prossimi impegni: «Al momento sto disegnando una lunga storia per Topolino su testi di Sergio Badino. Ma poi ho già l’idea e parecchi appunti per il prossimo libro. E sto cercando di convincere Tito Faraci a scrivere una nuova storia su Diabolik». È l’anima dark che chiama, implacabile.