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Silvia Ziche, i fumetti e la necessità del dialogo

Silvia Ziche, i fumetti e la necessità del dialogoUna tavola da «La Gabbia»

Intervista L'autrice racconta il suo ultimo lavoro, «La Gabbia», uscito l'anno scorso per Feltrinelli

Pubblicato più di un anno faEdizione del 12 agosto 2023

Silvia Ziche è probabilmente la fumettista italiana che meglio ha saputo coniugare il lavoro per l’industria con Disney e un percorso personale di produzione satirica che l’ha portata alla creazione di Lucrezia, un personaggio tanto accattivante ed efficace quanto difficile da scindere dalla sua autrice. Lucrezia è la protagonista di due libri editi da Feltrinelli, ma la stessa casa ha pubblicato lo scorso anno una storia diversa, più intima e personale, intitolata La Gabbia. Dopo l’intervento al Festival Passaggi di Fano, abbiamo approfondito il lavoro con l’autrice.

Da anni affianchi il lavoro disneyano con le strisce satiriche di Lucrezia, la cui ironia si concentra su fatti molto pratici della vita delle donne alle prese con una società incasellante, performativa e tendenzialmente patriarcale. Da dove trai ispirazione per la sagacia di Lucrezia, per la sua tempra resistente e ottimista?
Di solito l’ispirazione la trovo guardandomi intorno, ma anche guardandomi dentro, cercando di chiedermi che cosa avrei potuto dire, o fare, in una certa situazione, per uscirne al meglio. Quindi a volte Lucrezia è una specie di palestra, con lei cerco di allenarmi alla soluzione delle più varie situazioni. A volte lei è come vorrei essere, a volte come non sono riuscita a essere.

I tuoi libri precedenti «E noi dov’eravamo» e «L’allegra vita della quota rosa» vedono Lucrezia alle prese con il patriarcato, in una dimensione storica e pubblica delle rivendicazioni di genere. Quella de La Gabbia è invece un’altra protagonista e una narrazione più intima: tecnicamente è un’elegia, ma si svolge come un dialogo serrato tra una figlia, Serena, e la madre morta, Letizia, della quale non riesce a liberarsi. Rispetto ai lavori precedenti e in generale a Lucrezia, si tratta di un giro introspettivo radicale, che prevede la creazione di un’altra protagonista. Come sei arrivata a questo racconto?
Ci sono arrivata per necessità. Ho cercato fino all’ultimo di evitare di raccontare questa storia, ma la mia mente ci tornava continuamente, impedendomi di fatto di pensare ad altro. Tutto è cominciato con la morte di mia madre, con cui ho sempre avuto un rapporto complicato. Ho iniziato a prendere appunti, a scrivere delle cose, ma solo per cercare di mettere ordine alle mie emozioni contrastanti. Doveva essere una specie di diario privato, una specie di terapia. Poco a poco gli appunti si sono trasformati in un dialogo, quello che non sono mai riuscita ad avere con mia madre. Insomma le ho dato una voce, nella mia testa, per darle la possibilità di spiegare, argomentare, forse anche difendersi. E lei di questa voce ne ha approfittato, cominciando a parlarmi, a intromettersi sempre, in qualsiasi situazione. Insomma, si stava trasformando in un personaggio, così come gli appunti prendevano forma di storia. Quando alla fine ho ceduto e ho capito che solo dandole voce avrei potuto passare finalmente ad altro, ho riletto tutti gli appunti: mi sono accorta che era una storia che si poteva raccontare, che non c’era più niente delle persone che l’avevano vissuta, c’era solo il disagio, diventato anche lui personaggio. Così l’ho isolato ulteriormente, ho tolto qualsiasi riferimento o caratteristica reale, e ho raccontato solo l’epica battaglia di una madre e una figlia contro un dolore incompreso e totalizzante.

Come accennavamo, il racconto affonda in questioni molto personali tra madre e figlia, eppure ci sono dei rimandi alla situazione socioculturale delle donne, destinate sin dalla notte dei tempi a portare un fardello di dolore. Credi che questo tipo di onere influisca sulle nostre relazioni intime?
Sì, in certi casi, se non abbiamo la forza di fermarci e di cercare di capire, influisce tantissimo. Molte donne della generazione di mia madre, o di quelle precedenti, hanno subito in pieno le limitazioni imposte dalla società patriarcale. Questo le ha private anche degli strumenti necessari per decodificare la realtà, per disinnescare il disagio. E un disagio non compreso rischia di essere caricato sulle spalle di chiunque si avvicini, nel disperato tentativo di trovare un po’ di sollievo. I mariti, i fidanzati, le figlie e i figli sono di solito le vittime preferite.

Il rapporto tra madre e figlia è scandito da aspettative disattese da entrambe le parti, dal costante giudizio e da una tendenza alla depressione che contagia anche i rapporti esterni di Serena. Come si porta l’ironia all’interno di una storia come quella de La Gabbia?
L’ironia serve a scardinare il vittimismo e a salvarci dalla lamentela, due fenomeni che non portano mai a niente di buono. La Gabbia ha un tono più serio rispetto ad altri miei racconti, ma un po’ di ironia era indispensabile per dare una via d’uscita ai miei personaggi, per prendere un po’ di distanza da emozioni e sentimenti difficili da affrontare. Credo che non ci possa essere ironia senza consapevolezza, una specie di salvagente per non essere travolti dalle vicissitudini della vita.

L’azione si svolge in buona parte all’interno della testa della figlia, il luogo dove le difficoltà del rapporto hanno fatto più danni, dove la madre spazza, intenta a liberare la figlia dal ‘ciarpame’. Anche da morta la madre prova a imporre un ordine preciso alla vita della figlia. Come hai scelto le metafore di gabbia, scopa e spazzatura e cosa si nasconde dietro a queste scelte iconografiche?
Ho cercato di trovare delle metafore visive che mi aiutassero a ricreare delle emozioni. La scelta di luoghi e immagini doveva aiutarmi a rafforzare i dialoghi. Non so mai spiegare da dove arrivino le idee, perché mi venga in mente una cosa invece di un’altra. Nel caso di questo libro, ho cercato delle immagini e delle situazioni che provocassero l’emozione che volevo evocare. Il personaggio di Letizia, la madre, dice chiaramente che non ha potuto realizzarsi. Quindi le situazioni casalinghe, quotidiane erano l’elemento giusto per raccontare il suo sentirsi prigioniera della propria vita. Una delle tante gabbie di questo libro.

Sono molte le emozioni che attraversano i volti delle donne. Come hai lavorato sulla drammaturgia e sulla plasticità dei personaggi? Quanto la carriera in Disney si rivela utile in questo aspetto del disegno?
Ho iniziato più o meno contemporaneamente, ormai parecchi anni fa, a lavorare per Disney e a fare fumetti con personaggi miei. Le due cose forse ogni tanto si mescolano un po’, ma non così tanto. Penso di avere piegato più i personaggi Disney al mio stile di disegno e di scrittura, che il contrario. Ho riguardato di recente alcuni miei vecchi lavori per scegliere le tavole per una mostra, e direi che Serena e Letizia sono perfettamente in linea con il mio segno di sempre.

Avevi un’idea precisa su come strutturare la pagina? Spesso la rappresentazione frontale sembra un palcoscenico…
Anche questa è una particolarità di molte mie storie, anche disneyane. Mi piace puntare tutto sulla recitazione dei personaggi, quindi tengo un punto di vista quasi immobile, ad altezza sguardo, vicino ai personaggi. Un punto di vista che può ricordare una sit-com. Oppure un palcoscenico. In questo caso direi proprio un palcoscenico, vuoto, surreale, con un faretto puntato su una protagonista o un’oggetto, isolandoli dal resto del mondo.

La relazione tra madre e figlia attraversa momenti del passato e si centra su un presente impossibile dove si svolge il dialogo con una persona non più viva e una che inserisci, addirittura mai esistita, la nipote Gaia. Perché hai scelto di rappresentare e materializzare il personaggio della figlia mai avuta?
Non volevo che la Gabbia fosse una recriminazione su una relazione mal riuscita. Infatti la storia si è evoluta come una riflessione sulla maternità. Può accadere di non essere madre per paura di una relazione troppo viscerale, per paura della responsabilità che ne deriva. Non è mai una scelta tranquilla, priva di dubbi. Gaia rappresenta appunto i dubbi, le difficoltà che Serena ha avuto paura di affrontare. Ma rappresenta anche il futuro, il fatto che un figlio è una persona a sé, non è una nostra emanazione. Le nostre paure saranno sicuramente un’eredità, ma non necessariamente una dannazione. Gaia è la casualità e l’imprevedibilità della vita.

Le tue lettrici e tuoi lettori possono aspettarsi un altro volume? Ci sarà Lucrezia o un’altra personaggia?
In autunno arriverà in libreria la mia prossima fatica. Tornerà Lucrezia a raccontare le contraddizioni del mondo in cui ci ritroviamo a vivere. Sono partita con l’idea di fare un libro divertente, ma dato l’argomento, sono usciti dei risvolti piuttosto inquietanti. Quando comincio a raccontare qualcosa ho solo un’idea vaga di dove andrò a parare. Anche in questo caso, come un po’ ne La Gabbia, la storia ha preso il sopravvento sull’autrice.

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