Silvia Gribaudi

Corpi. Corpi in movimento. Maschili e femminili. Corpi diversi. Ogni corpo, una storia. Corpi imperfetti, fuori dai modelli imposti. Corpi morbidi. Corpi gioiosi. Perché un corpo ci piace? Corpi che nella diversità costruiscono armonia. Educare lo sguardo. Cos’è, oggi, bellezza? Quanto pesa il giudizio altrui? Non è un caso che il primissimo solo di Silvia Gribaudi, eroina punk della scena contemporanea nostrana, s’intitoli A corpo libero. Un’opera/manifesto fatta ovunque – per strada, nelle piazze, al supermercato – con cui la performer e coreografa di Torino nel 2009 ha iniziato la sua indagine poetica e politica che decostruisce e ribalta completamente i canoni della danza; il modo di concepire e osservare i corpi, in scena e nella vita quotidiana. Un lavoro totale, di scavo, rivoluzione e messa in crisi, tra estetica, antropologia, psicomotricità, che pone in relazione continua e attiva palco e platea: come se ogni spettacolo fosse un workshop aperto, in cui performer e pubblico si scambiano continuamente i ruoli.

Silvia Gribaudi
Prima mi sentivo a disagio, sbagliata. Poi ho scoperto il clown, che accetta di non essere adeguato e diventa vincente nel suo fallire. Così è nata la mia poetica dell’ironiaL’elemento laboratoriale è una parte essenziale di questo percorso: lo racconta molto bene Overtour, documentario di Andrea Zanoli (Lab 80 film, 2021) che mette insieme materiale di repertorio e il metodo di trasmissione che Gribaudi ha sviluppato nel laboratorio permanente e itinerante «Over 60», nato nel 2011 e dedicato alle donne con più di 60 anni.
Il 27-28 ottobre Silvia Gribaudi sarà a Napoli per un workshop presso Movimento Danza, prima di riprendere la lunga tournée. L’abbiamo sentita dopo una replica in Canada dove Graces, lavoro che interroga il concetto di grazie e bellezza, da diverse sere è sold out.

Vieni da una formazione di danzatrice classica. Poi, cos’è successo?

Ho studiato con Franca Pagliassotto, assistente di Ismael Vivo, poi ho iniziato a danzare per il Teatro Regio, La Fenice. A un certo punto non capivo più perché danzavo. Incontrai Vasco Mirandola, attore che faceva cabaret. Mi disse: «Ma lo sai che fai ridere?». Con Ennio Marcheto, Rita Pelusio e altri artisti della comicità e del trasformismo, ho lavorato sul clown. Ho capito che potevo danzare in un modo più vicino a me. Ridere è anche dare meno peso al corpo e alla danza come la interpretavo fino a quel momento. Danzare significa stare dentro una propria natura. Prima mi sentivo a disagio, sbagliata. Il comico accetta di non essere adeguato e diventa vincente nel suo fallire. Inoltre in tutto questo, la mia fisicità si è trasformata. Non riuscivo più a essere una moltitudine di un corpo di ballo di corpi uguali. Con A corpo libero ho dichiarato la libertà di questo corpo cambiato che aveva delle parti più grasse che si muovevano rispetto a prima. Oggi penso che all’epoca ero magrissima, ma ricordo le prime critiche: «un corpo pieno di curve, curvo». Così è nata una poetica del corpo e dell’ironia che va avanti tuttora.

I tuoi lavori – «R.osa», «Graces», «Ladies Body show» – aprono un dialogo attivo col pubblico.

La questione è sempre come guardiamo il corpo dell’altro. Com’è il nostro sguardo? Se non è uno sguardo allenato, che si mette in discussione, attento a se stesso e all’altro, rischia di incatenarci. In Ladies Body Show proiettiamo delle domande: dove va il tuo sguardo, cosa vedi? Chi è la più giovane, chi è la più vecchia? La mia modalità è smuovere lo spettatore, creare un tempo per riflettere su come scegliamo cosa guardare. Dire: queste donne – di «mezza età» – esistono e combattono per dichiarare di essere così come sono, così come siamo, è fondamentale per l’equilibrio di una società civile.

In che modo questo dialogo «libera» lo spettatore?

All’inizio, lo spettatore non sa che fare, se e cosa rispondere. A un certo punto si sente libero di esprimersi: il divertimento è più grande del disagio di esporsi. In Graces chiediamo: «Tra i danzatori, chi vi piace di più?». Dichiarandolo, subito elimini il potere di chi sta scegliendo qualcuno rispetto a un altro: lo destrutturi. Ecco che la persona può prendere consapevolezza, ridere di sé, del suo modo di guardare quel corpo. E diventa uno sguardo più pulito. Più puliamo i nostri sensi, più siamo in grado di scegliere in maniera coerente i nostri bisogni, anche rispetto alla necessità di ricevere bellezza. A Montreal siamo andati in scena davanti a un pubblico di 700 persone, nella stessa sala dove la sera prima c’era la Wuppertal di Pina Bausch. Abbiamo ricevuto un’accoglienza meravigliosa, non si parlava di coreografia, drammaturgia ma di linguaggio originale e come abbia senso che questo linguaggio venga espresso in questo momento storico. Penso che alle persone faccia bene vedere il mio lavoro, sento che in qualche modo li smuova e che rigeneri il concetto di gioia a teatro.

Il prossimo spettacolo prosegue la tua rivisitazione della danza classica.

È uno studio sui finali del balletto classico che continua l’indagine sulla bellezza. Che valore ha il classico, che rimane dell’eredità che riceviamo? Si trasforma o scompare? Io sono nata lì, per me ha un suo valore. A volte però rimaniamo ancorati a delle forme di danza molto note – Giselle, lo Schiaccianoci – ma qual è l’evoluzione della danza classica? Ci serve come strumento di apprendimento delle tecniche, eppure alcuni grandi coreografi contemporanei neanche le hanno studiate.

Come conduci i tuoi workshop con i performer?

Quando incontro delle persone giovani cerco di stimolare la loro originalità poetica. Mentre impariamo, tendiamo a cercare l’approvazione del nostro maestro. Va bene seguire la guida, ma occorre essere capaci di non essere schiavi di una struttura, ma protagonisti. Lo dico soprattutto alle danzatrici che iniziano da piccole. La tecnica nella danza crea corpi uguali. Quindi dico: ragazze, dateci dentro! Ognuna di noi ha qualcosa di forte da tirare fuori.