Cultura

Silvia Bencivelli, occorre una voce tersa per parlare di scienza

Silvia Bencivelli, occorre una voce tersa per parlare di scienza

SCIENZA Un'intervista con la giornalista scientifica e scrittrice che ha prodotto saggi di successo e, di recente, un romanzo per Einaudi. «Difficile parlare di salute così come dividere in due categorie, i flebili e gli aggressivi. I toni sono diversi secondo il pubblico». «Certo discutere solo in termini di obbligo o di libertà può rivelarsi controproducente»

Pubblicato circa 7 anni faEdizione del 24 settembre 2017

Secondo l’Istituto di ricerca «Observa» diretto dalla sociologa Barbara Sarracino, negli ultimi due anni la percentuale di italiani contrari alle vaccinazioni è calata notevolmente. Dal 2015 a oggi, i «No Vax» sono scesi dal 18 all’8%. Le persone favorevoli all’obbligo, invece, sarebbero raddoppiate, passando dal 23 al 47%. Per Massimiano Bucchi, sociologo e fondatore di «Observa», il dato si spiega soprattutto con l’informazione fornita dai medici di base. Ma non tutti sono d’accordo. Secondo Roberto Burioni, l’infettivologo-star che da Facebook alle reti tv dispensa lezioni perentorie a favore dei vaccini, il merito è delle voci «ferme e autorevoli» come la sua, che «hanno sostituito le parole flebili dei divulgatori professionisti». Insomma, per convincere gli italiani bisognava alzare la voce.
Tra le voci «flebili» criticate da Burioni, forse c’è anche quella di Silvia Bencivelli, laureata in medicina e chirurgia, giornalista scientifica, scrittrice quarantenne e una delle protagoniste più affermate della comunicazione scientifica in Italia. La voce di Bencivelli, per la verità, non è per niente flebile, come sanno anche gli ascoltatori di Radio3Scienza e i telespettatori della scorsa edizione di «Tutta Salute», fino allo scorso giugno in onda ogni mattina su Rai3.
Bencivelli si difende benissimo anche con la parola scritta, sulle colonne del gruppo Repubblica o nei saggi in libreria: l’ultimo (2016) si intitola È la medicina, bellezza! Perché è difficile parlare di salute, scritto con Daniela Ovadia per Carocci e finalista al premio Galileo per la divulgazione scientifica. Da quando pochi mesi fa Einaudi ha pubblicato Le mie amiche streghe, è anche autrice di narrativa. Chiediamo a lei se per parlare di scienza bisogna davvero alzare la voce.

«Sul sondaggio di Observa ho qualche perplessità. Intanto, fa una divisione tra due tribù contrapposte, come se potessimo davvero dividere la società in No-Vax e Pro-Vax. In realtà ci sono molte posizioni intermedie, ci sono i dubbiosi e quelli che non sono contrari ai vaccini, ma preferiscono aspettare qualche anno per somministrarli. Che la copertura vaccinale in questi mesi stesse recuperando, però, non è una novità. Così come si sapeva già che lo zoccolo duro di anti-vaccinisti si limita a un 4-5% della popolazione. Anche tra chi fa informazione, è difficile dividere in due categorie, i flebili e gli aggressivi. Chi lavora in questo ambito sa che nessuno adotta sempre lo stesso registro. Cambiamo il tono secondo il contesto o il pubblico cui ci rivolgiamo.
Mi è capitato di partecipare a manifestazioni pubbliche insieme a Roberto Burioni, e anche lui in realtà è piuttosto attento nell’adattare la comunicazione all’interlocutore che ha davanti, dal vivo o in tv».

Secondo la sua esperienza, i tempi della televisione sono adatti a parlare di queste tematiche?
Sì, in tv si può fare comunicazione della scienza. Anzi: si deve farla, soprattutto quando si parla di servizio pubblico. Certo, spesso si impone l’idea, sbagliata se si tratta di scienza, che debbano essere sempre presentate le due campane, che serva il contradditorio. In tv prevale un’idea di pluralismo secondo cui su ogni tema, anche quelli scientifici, vanno ascoltate tutte le campane.
Così, a volte un’opinione condivisa dalla stragrande maggioranza della comunità scientifica viene messa sullo stesso piano di un’altra del tutto marginale, sostenuta magari da pochissime persone. È anche il motivo per cui a sostenere certe posizioni vengono invitati sempre gli stessi interlocutori.

Persino un romanzo, come quello che ha pubblicato da poco, è adatto a parlare di scienza?
L’idea è venuta alla mia editor Angela Rastelli, che mi ha fatto notare quanto il tema fosse pieno di spunti narrativi e mi ha suggerito di provare a scrivere. Ho accettato la proposta con entusiasmo e qualche difficoltà, perché non mi è così facile parlare di me, poi però ammetto di essermi divertita molto. C’è poi un motivo più serio, su cui ho ragionato a lungo con Angela: l’umanità ha sempre usato le storie per trasmettersi credenze e conoscenze. Le storie hanno un grande potere nell’influenzare il nostro modo di pensare: sia che si tratti di fiabe, più adatte a comunicare il pensiero magico, sia che si tratti di scienza.

Nel suo libro, le «amiche streghe» sono donne intorno ai quaranta pienamente integrate che si affidano all’omeopatia e diffidano dei vaccini. È il ritratto di una generazione?
Quella generazione è anche la mia, ed è possibile che si tratti di un’immagine distorta: capita a tutti noi di dare importanza alle cose che ci riguardano più da vicino. Eppure, credo che una componente generazionale effettivamente ci sia.
La nostra generazione è approdata alla vita adulta più tardi e con qualche difficoltà. Per molti di noi, questo è il momento in cui ci si inizia a preoccupare per sé e per le altre generazioni: i genitori che invecchiano, i figli neonati, spesso entrambe le cose. Dunque, è la fase in cui siamo più vulnerabili nei confronti di certe paure e in cui sviluppiamo molte diffidenze. Credo che anche la crisi dell’autorità, a cui assistiamo nell’ambito scientifico ma anche in quello politico, sia collegata in qualche modo a questo sentimento. Oggi tendiamo ad associare a questa crisi un giudizio molto negativo, visti gli effetti che produce a breve termine. Ma nella storia la crisi dell’autorità ha contribuito a svolte positive. Lo stesso pensiero scientifico moderno nasce da una crisi dell’autorità.

Ha studiato medicina, prima di dedicarsi al giornalismo. I medici sono preparati ad affrontare questa crisi?
I medici sono un po’ abbandonati a se stessi. Chi studia medicina raramente ha occasione di approfondire la cultura e la filosofia della medicina, che hanno duemila anni. Spesso ne risente proprio il rapporto con il paziente, e la capacità del medico di aiutarlo nelle scelte in materia di salute. Però, nei medici più giovani vedo meno arroganza. Innanzitutto, il codice di deontologia medica, negli anni, è stato aggiornato e adesso parla esplicitamente di «libera scelta del paziente» tra strutture, servizi e professionisti della sanità. Inoltre, sono ormai vent’anni che i medici si confrontano con il «dottor Google»: sanno, cioè, di non essere l’unica autorità per il paziente, che può accedere a molte informazioni talvolta, purtroppo, apparentemente più credibili degli stessi professionisti.

Di fronte a tante fonti spesso contraddittorie, la ministra Lorenzin ha deciso di introdurre l’obbligo vaccinale. È una decisione saggia?
Secondo me l’obbligo vaccinale è un errore. Credo che una società matura debba fondarsi sulla responsabilità dei suoi membri, in grado di compiere in autonomia scelte come quella di vaccinarsi. La nostra Costituzione stabilisce che nessuno può essere sottoposto a un trattamento sanitario contro la sua volontà. Il Trattamento Sanitario Obbligatorio è un’eccezione. Piuttosto, punterei ad aumentare la copertura vaccinale attraverso campagne di informazione presso l’opinione pubblica. In passato, molte vaccinazioni erano obbligatorie. Ma quando alcune divennero facoltative, molti pensarono che evidentemente non fossero così utili, e smisero di vaccinarsi. Quindi, discutere solo in termini di obbligo o di libertà può rivelarsi controproducente.

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