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Silvia Ballestra si rispecchia ancora in Joyce Lussu

Silvia Ballestra si rispecchia ancora in Joyce LussuGioconda Beatrice Salvadori Paleotti, alias Joyce Lussu (1912-1998) ritratta da giovane in Francia

Personaggi del Novecento La marchigiana Silvia Ballestra, legata a doppio filo alla scrittrice partigiana di ascendenza inglese, ne compone una intensa biografia colloquiale a scenario mobile: La Sibilla da Laterza

Pubblicato più di un anno faEdizione del 16 aprile 2023

Pare che a lanciare la sfida fosse stato proprio Roger Fry. Durante una delle molte discussioni che illuminarono la loro lunga amicizia, sprofondati in poltrona agli Omega Workshops o in piedi tra i torchi della Hogarth Press, le suggerì di mettere alla prova le sue teorie sulla biografia scrivendo quella di lui. Non si trattava di un compito facile se per Virginia Woolf, lo aveva spiegato in un articolo, è «la vita fittizia» ad apparirci «sempre più reale», quella «racchiusa nella personalità piuttosto che nell’azione». Per poterla catturare «l’immaginazione del biografo» dovrà utilizzare «l’arte del narratore», senza tuttavia spingersi tanto oltre da tradire la verità poiché perderebbe «entrambi i mondi»: non avrebbe l’aerea «libertà del romanzo» né la granitica «sostanza dei fatti».
Chissà se Gioconda Beatrice Salvadori Paleotti, più nota come Joyce Lussu, nome dell’infanzia e cognome del marito, fantasticò una conversazione come questa quando nel suo unico racconto poliziesco si divertì a mescolare tra i bloomsberries il pittore tardo-preraffaellita John Collier, suo prozio, deponendo con assoluta disinvoltura tra le mani di una giovane Woolf l’autobiografia di Margaret Collier Galletti, la sorella andata in sposa a un ufficiale marchigiano e sua nonna per parte materna. Si tratta in ogni caso di un implicito omaggio alla linea femminile inglese della famiglia, da cui Lussu sa di avere ereditato quello spirito anticonformista e avventuroso, quel carattere volitivo, autonomo, ribelle così scandalosi nell’Italia non solo ottocentesca e non solo pontificia. Né le parole di Virginia Woolf si direbbero troppo lontane, almeno nelle intenzioni, dal delicato equilibrio tra «personalità» e «azione», anche tra «libertà» e «sostanza» che Silvia Ballestra cerca nella costruzione del suo La Sibilla Vita di Joyce Lussu (Laterza «i Robinson/Letture», pp. 237, € 18,00), biografia modulata secondo la sonorità mutevole del reportage più che intonata alla cadenza ferma del ritratto.
«Ripercorrere le sue tracce, rileggere di nuovo la sua storia, è come quando si sale alla Sibilla, magari portandoci degli amici, e guardare da lassù quel magnifico paesaggio, antico, umano, ricco di acqua e vegetazione, solido e composito, mosso da venti gentili, operoso. Sapendo che un tempo, lì attorno, ci sono state per secoli centinaia di comunanze governate pacificamente da donne che hanno prodotto, tramandato e conservato saggezza e conoscenza, modi di vita alternativi e giusti per tutti» dichiara l’autrice, legata alla protagonista da una lontana parentela di ascendenza inglese oltre che da una profonda amicizia, in una delle sequenze conclusive del testo. Nessuna frase potrebbe illuminare più chiaramente il significato del libro e insieme la sua architettura, il suo titolo in apparenza così arcano e i temi che lo innervano, incisi, anzi incarnati nella vita e perfino nel corpo della donna leggendaria che racconta. Joyce Lussu è la grande casa di San Tommaso annidata nell’abbraccio morbido del paesaggio marchigiano, dove Ballestra ventunenne arriva per la prima volta in una sera autunnale, ma è anche il gomitolo infinito delle strade che ha percorso, attraversando indomabile «fronti» e «frontiere» per tessere oltre ogni filo spinato magici legami. Acquista senso che l’ultimo romanzo della non di rado autobiografica Ballestra, il molto marchigiano e altrettanto famigliare La nuova stagione, si apra con un’ascensione tra donne, anzi tra cugine, sul monte Sibilla.
Comincia del resto dentro lo scompartimento di un treno La Sibilla, dal finestrino l’autrice guarda il cielo della notte adriatica e in compagnia del lettore insegue a bordo di quel treno la vicenda prodigiosa già in parte narrata dalla stessa Lussu, per una sua esatta volontà testimoniale, in Fronti e frontiere (1945) e in Portrait (1988), L’olivastro e l’innesto (1981), Il libro Perogno (1982) e anche in Tradurre poesia (1994). Disegna per questo suo viaggio un tragitto poco lineare Ballestra, sceglie come partenza non la nascita di Joyce nel 1912, ma l’incontro con il futuro marito Emilio Lussu, da cui sarà segnata tutta la sua storia; la sintonia di coppia è nel volume un aspetto cardinale che affianca e non sovrasta il tema dell’emancipazione femminile.
Doppio è nella biografia anche l’itinerario che il lettore si trova ad affrontare: la spirale disegnata dai pensieri dell’autrice intorno alla stesura del suo libro, dentro la cui vicenda si rispecchia, diverge infatti dall’inquieto zigzagare della protagonista. Si allontanano sfrigolando via veloci sui binari i passi di Joyce bambina a Firenze e durante le vacanze nelle Marche, giovane donna in Africa, falsaria di passaporti nella Francia di Vichy e ardimentosa staffetta nell’Italia occupata, madre all’indomani della Liberazione, donna decisa a ritagliarsi un proprio spazio di disobbedienza nella Ricostruzione raggiungendo le zone più arretrate per parlare alle altre donne, «scrittrice di complemento» pronta a spingersi con il suo messaggio di pace dovunque si combatta ancora una guerra, eterna sovversiva in giro per il mondo alla ricerca dell’«attimo in cui si realizza l’utopia».
Silvia Ballestra ricostruisce la straordinaria protagonista e il frenetico mulinare di sfondi su cui si dispiega la sua vita utilizzando tutte le fonti edite disponibili, non ultimo il libro-intervista Joyce L. Una vita contro da lei stessa firmato nel 1996, due anni prima della morte di Lussu. Si mostra tuttavia ammirevolmente pudica nel ricordo; più volentieri sottolinea il debito contratto nel tempo della loro amicizia. Non è incidentale che la narratrice (una delle poche disposte in Italia a confrontarsi ancora con la realtà) adotti un linguaggio colloquiale e imprima al testo l’intonazione di un dialogo: il lettore deve capire e il testimone passare in nuove mani.
«Non credo di avere ucciso; credo di avere riportato in vita» scriveva Virginia Woolf appena conclusa la stesura di Roger Fry. Anche l’autrice di questa Sibilla potrebbe ora pensare la stessa cosa.

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