La normalità di una sala piena – dopo due anni di pandemia – e dopo che a gennaio l’evento era stato posticipato di tre mesi per via di una recrudescenza dei contagi. Una serata soprattutto senza schiaffi in diretta, come accaduto giusto una settimana fa agli Oscar. La cerimonia di assegnazione dei Grammy – i premi dell’industria musicale stelle e strisce conferiti agli artisti e alle loro produzioni, ha dato vita dal casino Mgm di Las Vegas a una edizione quanto meno decorosa, con l’appendice del video messaggio registrato di Zelensky arrivato a sorpresa. Il presidente ucraino, snobbato dall’Academy domenica scorsa, ha chiesto ai fan della musica in America di usare i social media per «dire la verità sulla guerra» e «di sostenere la causa dell’Ucraina» in ogni modo possibile, ma non «col silenzio».

LA PARTE LUDICA della serata – più defilata sui venti di guerra – ha visto una serie di esiti nemmeno scontati. Intanto un grande ritorno della «vecchia scuola» del soul, perché a ricevere il premio (doppio) come Record of the Year ovvero la canzone dell’anno e per la stessa categoria nella sezione r&b, è stata Leave the Door Open, delizioso calembour di citazioni dalla melodia irresistibile messo a punto da Bruno Mars e Anderson.Paak, che sotto la sigla Silk Sonic hanno reso omaggio ai vorticosi anni settanta del soul e funk, con una performance implacabile. Una sorta di rivincita per un genere messo all’angolo negli ultimi anni dalla produzione hip hop, che di fatto monopolizza il mercato mondiale e grazie allo streaming ha letteralmente soppiantato più di una generazioni di pop e rockstar in America e nel resto del mondo. Ma non è solo il soul sugli scudi, perché anche il jazz – in un’accezione decisamente più contaminata – si prende la sua rivincita.

IL PREMIO come miglior album è andato infatti a We Are, il kolossal del pianista e compositore Jon Baptiste. Affermazione che travalica il premio stesso, perché We are – aldilà dell’elevato valore dell’opera – è un invito alla presa di coscienza che insieme al Covid abbraccia anche l’assassinio di George Floyd, evento che ha portato lo stesso Jon Batiste a organizzare una marcia pacifica con 5000 persone suonando e cantando per le strade di Manhattan in virtù dell’uguaglianza e del rispetto. Per la cronaca, Baptiste si è portato a casa altri quattro premi.

Olivia Rodrigo – che sperava in un’affermazione più sostanziosa – vince come miglior album pop (Sour), migliore performance individuale pop (Drivers Licence e come «migliore artista emergente». Lady Gaga si è esibita in rappresentanza anche di Tony Bennett – 95 anni e l’Alzheimer che l’ha costretto a non presenziare alla cerimonia – con cui ha inciso il secondo album di duetti dedicato a Cole Porter, Love for Sale che si è guadagnato un Grammy come miglior album vocale pop tradizionale. Si diceva del rap un po’ in ombra in questa edizione, ha funzionato il duetto tra la rapper Doja Cat e SZA sono state onorate per Kiss Me More, giudicata la migliore performance pop non individuale, mentre Kanye West, il cui nominativo era stato stralciato dal novero dei performer a opera degli organizzatori per via del suo «bizzarro» comportamento online, insieme a Jay-Z si è imposto nella categoria Best Rap Song, con Jail.

NEL CORSO della serata tributi alla memoria del compositore Stephen Sondheim e di Taylor Hawkins dei Foo Fighters, morto in tournée il 25 marzo. E proprio i Foo Fighters, hanno trionfato in tutte e tre le categorie nelle quali erano state nominate, ovvero Best Rock Performance (per Making a Fire), Best Rock Song (per Waiting on a War) e Best Rock Album (per Medicine at Midnight). Summer of Soul di Questlove, già premiato agli Oscar, si è assicurato il titolo come Best Music Film. Miglior al bum jazz vocale Songwrights Apothecary Lab di Esperanza Spalding.