Silenzi pesanti, il «contratto» non è digitale
Ri-Mediamo La rubrica settimanale a cura di Vincenzo Vita
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Solo a pagina 50, al capitolo 28 sul turismo, il «Contratto per il governo del cambiamento» varato da Lega e MoVimento5Stelle fa un timido cenno all’era digitale. Ma il riferimento va nel senso di ipotizzare una piattaforma nazionale unica per i turisti, volta a valorizzare l’e-commerce sul e del prodotto culturale.
Giusto, certamente. Tuttavia, è proprio pochino. Che i cavalieri del cambiamento delle categorie del novecento, i cultori (i 5Stelle) della rete con tanto di macchina numerica «Rousseau», trattino i temi dell’innovazione molto al di sotto del minimo sindacale è assai curioso.
Tra l’altro, il capo 27 sui trasporti, infrastrutture e telecomunicazioni, è monco proprio di quest’ultimo – decisivo – aspetto. Rimane un rapidissimo cenno alla Rai.
Come mai? È distrazione o davvero i futuri governanti non ritengono che la rivoluzione in corso nelle tecniche e nei consumi sociali, nello stesso modello capitalismo in transito verso l’accumulazione e il controllo dei saperi non meriti uno approfondimento serio?
Del resto, proprio dall’universo grillino sono venuti negli anni passati stimoli numerosi su questioni delicate come il superamento del vecchio copyright o sull’urgenza di introdurre come regola, a partire dalle pubbliche amministrazioni, la pratica del software libero e aperto.
Lo stesso Beppe Grillo dedicò al computer uno spettacolo di successo. E quindi? Sarà l’influsso leghista, meno interessato a simili slanci verso il futuro essendo Salvini occupato dal contenimento dei migranti e dalla sicurezza, a colorare il «Contratto» di un approccio analogico classico. Comunque, qualcosa non quadra.
Il legittimo sospetto è che la materia sia «extracontrattuale», delegata silenziosamente alla Casaleggio Associati. Laddove, al netto dei giudizi politici ed etici (chi decide e come in quel mondo), è stato prefigurato un apparato di «rete-partito» che si regge proprio sui linguaggi digitali.
Di simile impostazione si è detto e scritto tanto, ivi compresa la giusta considerazione che il rapporto tra una società esterna e l’attività politica concreta sia piuttosto discutibile.
Opinabile, ma immerso nelle culture dell’innovazione il luogo decisionale di 5Stelle, l’anima vera del movimento rimane a sé stante e nulla si riversa nel progetto di governo.
Ci si poteva attendere un colpo di spugna rispetto alle consuetudini italiane, vecchie e ancorate al predominio della televisione generalista. Era lecito aspettarsi, anzi, un indirizzo «rivoluzionario» sulla stessa nomenclatura dei ministeri, puntando su un dicastero «digitale» volto a permeare l’intera struttura statuale e a dare un impulso non effimero alla diffusione della banda larga e ultralarga.
E invece no.
Il governo rimanga fermo alle abitudini consuete, lasciando l’Italia nella classifica bassissima dell’approccio tecnologico, mentre solo nella sfera separata del comando si parla la lingua dei moderni.
Purtroppo, c’è un precedente non lusinghiero. Se si va a riprendere il programma di Forza Italia del 1994 non si trova una linea dichiarata sulla televisione. Eppure, quel governo aveva al centro la difesa spasmodica delle aziende di Silvio Berlusconi. La regolazione del conflitto di interessi o l’eventuale ineleggibilità del «patron» di Arcore furono messi in soffitta.
A meno che, senza congetture, il motivo dell’assenza sia più semplice, ma non meno inquietante: siamo al cospetto forse di un governo congegnato per una campagna elettorale permanente e sull’innovazione non si prendono voti.
Il sogno non è digitale.
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