Politica

Sicilia, un Bianco non fa primavera

Amministrative 2013 I dati sul voto mostrano la grave crisi del Pd nonostante la vittoria in molti comuni

Pubblicato più di 11 anni faEdizione del 26 giugno 2013

A una prima lettura dei dati elettorali, il primo turno delle amministrative siciliane ci aveva messo di fronte a due risultati: l’ampia affermazione del centrosinistra e il crollo del Pdl. Nel parlare di una terra che «volta pagina», i sostenitori del governo Crocetta avevano colto l’occasione per ricordare il successo di quello che la stampa ha battezzato come «modello Sicilia»: un fronte di larghe intese in salsa siciliana che consente al centrosinistra di esistere e perfino di governare.
La vittoria al primo turno di Enzo Bianco aveva assunto un forte carattere simbolico, consentendo al Pd di guardare con incosciente ottimismo ai ballottaggi, ma il germe del crollo registrato lunedì era già presente nelle vicende che avevano determinato il risultato di Catania.

[do action=”citazione”]L’ex ministro rieletto per la quarta volta, ma nella sua maggioranza non c’è neanche un esponente della sinistra storica[/do]

Bianco è al suo quarto mandato. Per il quotidiano La Sicilia è «di nuovo ’u sinnacu», l’unico rappresentante di rilievo della cosiddetta stagione dei sindaci. Ma se in passato la costruzione (sociale e mediatica) di una primavera catanese ha esercitato un potere performativo sul voto, oggi neppure i meri dati elettorali ci inducono a supporre che la vittoria sia frutto dell’effetto trainante di un singolo personaggio, sia pure molto popolare. Sconfitto nel 2005 da Umberto Scapagnini, Bianco ha ottenuto a queste elezioni il 50,6% delle preferenze: un risultato straordinariamente inferiore al 61% raggiunto dalle liste della sua coalizione. Dati alla mano, la vittoria del neo-sindaco poggia su tre principali fattori. Innanzitutto si avvale del sostegno garantitogli dalla lista Articolo 4 (11,6%), formata a pochi mesi dalle elezioni da un gruppo di notabili politici di varia generazione e provenienza, tra i quali Lino Leanza. Ex segretario del MpA di Raffaele Lombardo e democristiano di lungo corso, Leanza aveva rotto il sodalizio con l’ex presidente della regione già alla vigilia delle ultime elezioni regionali, accordando il proprio appoggio a Rosario Crocetta. In secondo luogo, il centrosinistra catanese è stato forte dell’apporto del movimento dello stesso presidente Crocetta, che ha potuto rinsaldare il legame con i circuiti catanesi un tempo vicini all’MpA già sperimentati in occasione del voto regionale. I cinque eletti nella lista del Megafono (12,1%) sono infatti tutti consiglieri uscenti di area autonomista. Infine, parte della forza elettorale della principale lista a sostegno di Bianco (Patto per Catania, 16,5%) è da attribuire a soggetti esterni al fronte del centrosinistra tradizionale e vicini all’ex assessore regionale autonomista Giovanni Pistorio, anch’egli liberatosi dell’ormai ingombrante figura di Lombardo. Il risultato del Pd, quarto partito della coalizione con l’11,3%, non è sufficiente a scongiurare un dato storico non certo secondario, suggeritomi da un attento testimone della politica cittadina nel giorno dei risultati: il nuovo consiglio comunale è il primo a cui non prende parte alcun consigliere proveniente dai tradizionali partiti della sinistra.

Sul fronte opposto, la debacle del Pdl è in parte compensata dal buon risultato della lista dei lombardiani. Abbandonato il riferimento all’autonomia e scelto il più neutro Grande Catania, Lombardo e i suoi si mostrano in grado di resistere alle numerose scissioni e alle vicende giudiziarie che hanno coinvolto l’ex presidente, continuando a esercitare un peso elettorale di tutto rispetto (12,5%).

Le profonde trasformazioni che hanno investito le forme del radicamento dei partiti italiani negli ultimi due decenni ci hanno indotto troppo spesso a collocare la politica nazionale nel quadro di una competizione tra sigle estranea alla dimensione territoriale, ma il risultato elettorale delle due principali coalizioni catanesi mostra quanto poco abbiano influito le risorse simboliche dei due opposti schieramenti. A tenere è stato piuttosto un radicato sistema elettorale e sociale, prima ancora che politico, del quale Lombardo era stato un abile coordinatore. Un blocco che ha tessuto negli anni reti di solidarietà ciclicamente stravolte e rinegoziate, ma difficili da interrompere perché fondate da un lato su accordi, alleanze e spartizioni che hanno effetti di lungo periodo e dall’altro sulla condivisione dei principali codici del fare politica locale. Tuttavia, il sistema clientelare catanese, descritto da svariate inchieste come una macchina politica in dotazione ai notabili di turno, trova in questi ultimi non già dei burattinai, ma dei degni rappresentanti. La sua efficacia, infatti, poggia sì sulle risorse che le élites politiche locali sono capaci di mobilitare, ma non può fare a meno di candidati e candidate in grado di radicare il consenso nei quartieri attraverso proprie risorse di socialità, non perdendo mai di vista – come è ben chiaro ai cinque ex consiglieri MpA oggi eletti con il Megafono – il contatto con gli elettori.

Quanto ai ballottaggi, a Messina e Ragusa i voti di preferenza ai candidati hanno garantito al centrosinistra un apprezzabile risultato al primo turno, ma non hanno scongiurato il crollo (di affluenza e di voti) quando, esaurite le risorse elettorali locali, sono rimasti in gioco i soli valori simbolici di ambigue coalizioni.
La strategia vincente del centrosinistra siciliano si rivela così un espediente in grado di porre rimedio, a breve termine, ai limiti di un partito che si nutre del radicamento altrui. La trita retorica sulla Sicilia come laboratorio del paese potrebbe indurre il Pd a trarre da queste elezioni un chiaro segnale sui prossimi nodi da affrontare: primo tra tutti quello di pensare un proprio modello di radicamento, in luogo dell’abitudine a contendere al centrodestra quello dei circuiti politici locali.

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