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Sicilia Queer Fest, Brasile, dialogo aperto sull’Aids

Sicilia Queer Fest, Brasile, dialogo aperto sull’Aids

Festival In un paese provato dal covid si discute di virus e malattia

Pubblicato circa 3 anni faEdizione del 11 settembre 2021

È in corso fino a domani a Palermo, presso i Cantieri Culturali alla Zisa, l’undicesima edizione del Sicilia Queer filmfest che ha risposto al contraccolpo della pandemia sugli appuntamenti culturali scegliendo di non concentrare tutti gli incontri e le proiezioni in uno stesso periodo per distribuirli invece in tre diversi momenti, tra l’estate e l’autunno: il primo si è tenuto a giugno scorso con, tra le altre cose, un’articolata masterclass del palestinese Kamal Aljafari; il secondo è ora in atto, e ruota principalmente attorno alle sezioni competitive; il terzo, conclusivo, avrà luogo il 23 e 24 ottobre con la sezione «Carte postale à Serge Daney» che vedrà come protagonista la regista francese Marie-Claude Treilhou. Inoltre, fino all’8 ottobre, il Centro Internazionale di Fotografia di Palermo ospita la mostra fotografica Lovett/Codagnone. Dreams Never End a due anni dalla morte di Alessandro Codagnone, una riflessione su potere e dissenso.

Tra due generazioni
In questo secondo momento, sono otto i lungometraggi nel concorso Nuove Visioni, tredici i cortometraggi nella sezione dedicata, con l’obiettivo di esplorare le nuove tendenze del cinema queer contemporaneo. Tra queste, le ultime opere di autori ormai di culto come Yann Gonzalez e Bertrand Mandico (rispettivamente il corto Fou de Bassan e il lungo After Blue visti di recente al Festival di Locarno) ma anche What do We See When We Look at the Sky del georgiano Alexandre Koberidze (passato a Berlino e a Pesaro) film sorprendente anche se non esplicitamente queer quanto l’esordio che aveva fatto conoscere questo nuovo autore nel circuito festivaliero, Let the Summer Never Come Again (2017).

L’unico italiano del lotto è La dernière séance di Gianluca Matarrese in proiezione domani alle 18 al Cinema De Seta a ridosso della prima alla Mostra di Venezia come film di chiusura della Settimana Internazionale della Critica. Si tratta di un documentario che attraverso il dialogo sensuale, intellettuale e affettivo tra il regista e l’uomo con cui ha una relazione sadomaso, stabilisce una dialettica tra due generazioni, due temporalità, due modi di rapportarsi con la crisi dell’Aids, con la separazione, con il lutto. L’Aids è anche il punto focale di Deus tem Aids dei brasiliani Gustavo Vinagre e Fábio Leal, proiettato ieri sera in anteprima mondiale. Il regista, sceneggiatore e attore brasiliano Vinagre (Nova Dubai, Lembro mais dos corvos, A rosa azul de Novalis, Vil, má) torna sugli schermi palermitani dopo l’omaggio monografico dedicatogli dal festival l’anno scorso con un documentario di forma più tradizionale rispetto ai precedenti – per lo più si tratta di interviste – ma che, ancora una volta, dà parola e visibilità a soggetti fuori norma mediante una relazione etica tra chi filma e chi è filmato e tra chi è filmato e chi guarda.

Mentre siamo ancora alle prese con una pandemia, di un’altra – ben diversa – ricorre il quarantennale, un’occasione per ragionare anche attraverso il cinema attorno all’AIDS e alle sue rappresentazioni. Era infatti il 5 giugno del 1981 quando il bollettino dell’agenzia epidemiologica federale statunitense, il Center for Disease Control, segnalò una strana forma di polmonite caratterizzata da un indebolimento del sistema immunitario in cinque pazienti ricoverati in California. Alla fine di quello stesso anno saranno centoventuno le morti censite per un’immunodeficienza che, individuata inizialmente nella comunità omosessuale maschile, verrà chiamata Gay-related immune deficiency (Grid) e solo dopo Aids. Anche se riscontrata nelle persone eterosessuali, per lo più tossicodipendenti, emofiliache o trasfuse, nell’immaginario mediatico si affermano denominazioni violente come «cancro omosessuale», «cancro gay», «peste gay».

Patologia  «morale»
Le prime rappresentazioni mainstream della malattia ne riconducono l’origine ad Haiti, stigmatizzano quel paese e i suoi abitanti, sovrappongono sesso, morbo e morte annichilendo una libertà sessuale dalle forti implicazioni politiche per la comunità queer che torna a essere patologizzata vanificando tutti gli sforzi dell’attivismo anni Settanta.
Il discorso pubblico di molti paesi, sostenuto dal Vaticano, propaganda allora una linea di contrasto al virus basata sull’eterosessualità, la monogamia e l’astinenza, che di tanto in tanto riemerge ancora oggi.

Come sottolineato da Roger Hallas nel saggio Aids, Bearing Witness, and the Queer Moving Image, costruire una memoria del passato e del presente dell’Aids da una prospettiva queer significa rispondere a una doppia esigenza: quella di contrastare la patologizzazione dei corpi non conformi alla norma dilagante nei media mainstream e quella di mettere in luce l’articolazione tra piano medico, psicologico affettivo e politico di questa esperienza. Per farlo, è necessario elaborare strategie che non reifichino i soggetti filmati ma favoriscano la relazione tra chi filma e chi è filmato e tra questi e chi guarda. In uno spazio mediatico in cui la presa di parola sul sé è condizionata dal registro della confessione, è inoltre importante emancipare ogni testimonianza dal rischio di individualizzazione per metterla in condizione di situarsi in uno spazio di tensione tra lutto e lotta. Il film di Vinagre e Leal ci riesce interrogando il rapporto tra sieropositività e narrazioni sociali oggi in Brasile attraverso le voci, i corpi e le pratiche audaci di sette artisti e un medico appartenenti a una nuova generazione di militanti.

C’è Carué Contreras, pediatra e attivista che per molto tempo ha avuto una «doppia vita» e solo una volta assunto con regolare contratto dal suo ospedale si è deciso a utilizzare anche in ambito professionale il nome con cui è noto nella cerchia militante; c’è il performer Ronaldo Serruya che ha ideato un happening con altri due compagni nudi in scena in cui il pubblico è chiamato a esprimere un voto su quale tra i tre sia sieropositivo così da sollecitare una riflessione sullo stigma e sui verdetti sociali; e c’è la radicalità coraggiosa delle messe in scena post-apocalittiche di Paulx Castello a base di liquidi corporei, lame, clisteri e situazioni che spingono a chiedersi dove si tratteggia il limite sociale e personale tra il sopportabile e l’insopportabile.

Kako Arancibia si accomoda invece in luoghi di grande passaggio con una sedia e un cartello sopra cui c’è scritto «Vamos conversar sobre Hiv e Aids». Lo fa per sollecitare le persone al dialogo aperto, a raccontare la propria storia ed entrare nel film in uno scambio che permette a Kako di fornire dati scientifici, informazioni su come evitare il contagio, di sfatare miti e paure a beneficio di noi spettatori. La sua «performance», dunque, non trasmette un sapere depositario ma lo condivide e in alcuni casi lo costruisce insieme agli interlocutori.

Discriminazioni
Artista visiva che si definisce «negra» e «soropositiva», con un gioco di parole allusivo al desiderio di sorellanza, Micaela Cyrino è nata sieropositiva ma l’esposizione al virus non le è stata diagnosticata fino ai sei anni, quando la madre è morta di una polmonite aggressiva ricondotta al contagio solo post mortem. Alla donna, infatti, non era mai stato fatto un test perché non si prendeva in considerazione la possibilità che di «peste gay» potessero ammalarsi anche le donne. Cyrino interviene con le sue opere grafiche nello spazio urbano mentre racconta quanto le rappresentazioni abbiano inciso materialmente sulla sua esistenza: «l’istituto a cui mi affidarono era come luogo di attesa, non ricevevo un’istruzione degna, non mi preparavano a diventare una cittadina, perché non era previsto che avessi un futuro, non credevano sarei sopravvissuta e invece eccomi qui. Una volta, a scuola, mi sono ferita e ho comunicato subito all’infermiera che doveva utilizzare dei guanti per proteggersi. Io ero tranquillissima ma quando la notizia si è diffusa nell’istituto hanno iniziato a trattarmi come un’appestata e a evitarmi».

In tutto il cinema di Vinagre a essere preso di mira è il fallocentrismo inteso come ossessione per l’Io padrone, negazione della fallibilità, della vulnerabilità e dell’eventualità di perdere il controllo, quella sovranità sulla nostra esistenza che è solo menzogna. In questa direzione va la testimonianza di Marcos Visnadi che, pur chiarendo quanto devastante possa essere la condizione fisica in cui si trova una personalità sieropositiva o malata, offre però anche la possibilità di una prospettiva meno egemone sullo stare al mondo e sulla cura: «A me che sono depresso e rischio di rimanere impantanato nei miei pensieri, la malattia offre un’urgenza concreta a cui ancorarmi».

Il film di Vinagre e Leal partecipa alla volontà di risignificazione politica del virus e del concetto stesso di malattia in un paese il cui presidente ha oggi sulla coscienza sia tanti morti per Covid sia un tasso di mortalità per Aids ancora alto (più di diecimila all’anno) soprattutto tra le persone afrodiscendenti e trans, le più povere ed emarginate. Perché oggi l’Aids non è più una condanna a morte ma la sieropositività è un tabù, un fattore di gravi discriminazioni e l’accesso alle informazioni e alle cure mediche dipende ancora molto da dove si vive, dal capitale economico, sociale e relazionale di cui si dispone ma anche dalla gestione politica della salute pubblica.

Sul finale, il film ricorda che nel corso della sua presidenza, Jair Bolsonaro ha autorizzato la spesa di 90 milioni di reais per l’acquisto di farmaci senza comprovata efficacia contro l’Aids e ha licenziato dal Ministero della Salute personale specializzato, smantellato reti informative del governo in materia, stanziato nel febbraio del 2020 3,5 miliardi di reais per una campagna in favore dell’astinenza rispolverando una retorica che sembrava archiviata per sempre.

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