Visioni

«Siberia», il caos del mondo e quello del cuore

«Siberia», il caos del mondo e quello del cuoreWillem Dafoe nel film – Federico Vagliati

In sala Il nuovo film di Abel Ferrara, un viaggio visionario che attraversa il cinema e il vissuto del regista. Protagonista Willem Dafoe, figura solitaria tra eccessi, ricordi, ossessioni. Distribuisce Nexo Digital

Pubblicato circa 4 anni faEdizione del 22 agosto 2020

Abel Ferrara, parlando di questo film, cita Jack London letto da ragazzo, insieme a Solgenitsin da cui ha tratto ispirazione per descrivere il rapporto dell’uomo con la Natura e col mondo animale. Forse però prima ancora che i passaggi letterari, evisivi visto che il desiderio dichiarato in ogni fotogramma è quello di tornare all’essenzialità delle immagini – mettendo da parte la «sceneggiatura» – l’ispirazione è lui stesso, il suo vissuto nella visionarietà che sa trasformarlo in narrazione.

Siberia, aveva detto Ferrara alla scorsa Berlinale, dove era in concorso, è nato insieme a un altro lavoro, Tommaso, racconto della sua vita romana e di una seconda chance esistenziale: una nuova famiglia, una nuova città, una nuova salute, la tranquillità (inquieta) a fatica conquistata. Il protagonista è infatti un artista americano, il Tommaso del titolo, che vive a Roma con la sua giovane moglie, Nikki (Cristina Chiriac, consorte del regista) e la figlia di tre anni Dee Dee (Anna Ferrara, la loro bambina), al lavoro sulla sceneggiatura di un nuovo film che sarà ambientato in Russia (Siberia appunto). Mentre il passato – evocato negli incontri degli alcolisti anonimi che frequenta regolarmente – viene presentato come un altro tempo, quello della droga (il set di un film a Miami, come New Rose Hotel, l’ospedale, il rehab che non gli servirà niente) e di un’altra famiglia. Tommaso è Willem Dafoe che «diventa» Abel nel modo di camminare, di gesticolare, nelle smorfie e nei sorrisi. Anche in Siberia c’è lui al centro di tutto, una performance essenziale in cui la relazione di complicità tra i due, l’attore e il regista, diventa parte anch’essa del racconto – nessun altro potrebbe «divenire» Ferrara allo stesso modo, senza mimesi, anzi contro di essa, ma immergendosi nella profondità della sua scrittura.

Non è però un’«autobiografia» tantomeno Siberia, pure se vive nelle inquietudini del suo autore, ciò che unisce i due film è il lavoro sul tempo interiore, che è quello cinematografico, di un «prima» e di un «dopo» nella vita del loro regista che esprime una costante ricerca nel proprio fare cinema. Tommaso è la quotidianetà, in una forma che lo rende un po’ diverso dagli altri documentari semiautobiografici a cui Ferrara ha lavorato negli ultimi anni, e che sembra portarlo verso Siberia, la cui astrazione sposta l’intimità a un universale umano.

C’ È UN UOMO in un bar remoto nel mezzo delle nevi (Dafoe) con un doppio che solo lui vede, gli unici occhi altrui che incrocia e che lo osservano sono quelli azzurro ghiaccio dei suoi cani da slitta. Le poche presenze nel suo orizzonte parlano lingue incomprensibili ma lui sorride mentre li ascolta. Sono reali? Sono visioni? Un pescatore, una giovane donna incinta insieme a una donna anziana. La sensualità di una notte passata con lei cede a un mattino livido di sangue e di orrore: l’uomo parte, quale sarà la meta? Siberia – che arriva in sala dopo il lockdown con Nexo Digital di Franco di Sarro – è un viaggio, un on the road che del «genere» dilata la forma emozionale, il movimento in sé senza una direzione nella necessità di risposte, di un senso al proprio essere al mondo, alla propria arte. Clint, il personaggio maschile, attraversa il pianeta, forse senza mai spostarsi, dalle nevi ai deserti ai giardini quasi dell’Eden; nella sua mente si affollano i ricordi, il padre, un bimbo – sé stesso? – l’album di famiglia, la madre, i sensi di colpa per non esserci stato quando lei moriva, l’ex moglie, una bambina … È ancora lui o è divenuto suo padre? L’eremo nei ghiacci, il suo rifugio, è distrutto, rimane il mistero di una lingua, il mistero degli esseri, del cosmo. È questo che accade nell’inconscio dell’artista, nella sua creazione? O è forse la sua ricerca intima di risposte?

Ma se l’idea della seduta di psicanalisi – la sceneggiatura è dello stesso Ferrara insieme a Christ Zois – può essere un punto di partenza, quello che il regista fa, e più di ogni altra volta, in modo totale, impudico, sfacciato è denudarsi mettendo alla prova le sue immagini, il dispositivo, la loro potenziale follia. Da qui la dimensione «autobiografica» dilata appunto la sua distanza, si fa specchio di archetipi, di miti, unisce privato e politico, attraversa il caos del mondo e quello del cuore: come si possono tenere insieme? E soprattutto: come possono trasformarsi in immaginario?

TRA VISIONI e epifanie dolorose, Ferrara assume il rischio del suo desiderio, si lancia nel vuoto come il suo personaggio, mostra questo maschile – che suo è sempre il punto di vista – nella violenza dell’umanità, nello sfregio delle guerre quotidiane e della storia, nella dolcezza del rimpianto e nelle ossessioni verso il femminile: il seno, il ventre, una Madonna. Lo aveva già fatto in Black Out – uno dei suoi film più belli – seppure in chiave tutta diversa, ma era un altro momento della vita, dunque del cinema, qui l’astrazione è moltiplicata, la realtà si deforma, e insieme tutto è così riconoscibile e reale. L’ossessione di mettere alla prova il proprio fare supera gli inciampi, l’eccesso, gli assoluti. Siberia è un gesto che irrompe nella contemporaneità per resistervi, per ricordare che il cinema – è questa la sua forza? – può essere solo spazio dell’invenzione.

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