Cultura

Sibari, l’acqua dell’oblio

Sibari, l’acqua dell’oblioFrammento di toro cozzante

Archeologia I resti della colonia greca sulla costa ionica d’Italia sono sempre a rischio di sommersione. Il sito, tenuto asciutto da pompe ingombranti e costose, è al centro di un progetto innovativo con la messa a punto di alcune «trincee drenanti»

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 25 giugno 2015

Ci sono destini che, a distanza di secoli, si ripetono. E se ciò che il passato restituisce diviene indimenticabile, le rovine restano fragili nudità, esposte a rovesci di fortuna e bellezza. Il caso di Sibari – colonia greca sulla costa ionica d’Italia, tra i fiumi Coscile e Crati – somiglia più al sortilegio di una divinità indolente che al definitivo epilogo di una città antica, celebre per ricchezza e lusso. Durante la sua folgorante esistenza, la megalopoli magnogreca – il cui circuito murario si estendeva per cinquanta stadi, vale a dire circa nove chilometri – riuscì a conquistare venticinque città e sottomettere quattro diverse popolazioni. La sua potenza ne determinò la fine, avvenuta nel 510 a.C. per mano della rivale Crotone, i cui abitanti – secondo il racconto di Strabone – deviarono il flusso del Crati per sommergere nell’oblio i segni della distruzione.

Sibari_grande_plateia Nord-Sud-1

Dopo i molteplici e fallimentari tentativi dei superstiti di ricostruire Sibari, nel 444 a.C. una spedizione panellenica voluta dall’ateniese Pericle occupò parte della città scomparsa, dando vita a una nuova fondazione chiamata Thuri, dal nome della fonte Thuria. Nello stesso luogo, nel 194 a.C., i Romani dedussero Copia, colonia latina che serba nel toponimo la memoria di un trascorso opulento. Poi, verso il VI-VII secolo d.C., il sito declinò in un lungo crepuscolo. Non molto tempo fa, il Crati ci ha ricordato che l’eternità non risiede nella miseria e neppure nell’abbondanza.

La notte fra il 17 e il 18 gennaio 2013 uno degli argini del fiume si ruppe, riseppellendo le vestigia di Sybaris-Thuri-Copia sotto una coltre di fango. Le foto di quei giorni sembrano riportarci alle sbiadite immagini degli inizi del XX secolo, quando il miraggio della Sibari arcaica giaceva tra le paludi di un Meridione povero ma caparbio. E come all’epoca i primi esploratori – fra i quali si distinse il filantropo Umberto Zanotti Bianco – andarono alla ricerca del perduto splendore della Magna Grecia, da due anni un’équipe di archeologi e operai è impegnata nella ripulitura di strade e murature dalla «maledizione» dell’acqua. Il pericolo, tuttavia, è sempre in agguato poiché la piana di Sibari è soggetta al fenomeno della subsidenza, un abbassamento progressivo della crosta terrestre che provoca la risalita delle falde idriche. Finora il sito è stato tenuto asciutto grazie a un sistema di well-points – pompe collocate in superficie che aspirano la falda tramite aste verticali infisse nel terreno –, le quali permettono lo svolgimento delle indagini scientifiche e la visita delle strutture emerse dagli anni ’60 del secolo scorso a oggi. La parziale chiusura del parco archeologico a causa dell’inondazione del 2013 ha fornito l’occasione per proporre una soluzione alternativa alle well-points.

Quest’ultime – pur essendosi dimostrate efficaci per circa quarant’anni – hanno costi di manutenzione elevati (oggi intorno ai 65mila euro l’anno, ma in passato molto di più) e rappresentano un elemento di «disturbo» sia estetico, per la presenza di tubazioni a vista che acustico per il rumore continuo prodotto dalle macchine. Allo stato attuale, contemporaneamente alla certosina rimozione del fango e ai lavori di restauro diretti da Angela Canale – interventi per i quali sono stati investiti due milioni di euro dai fondi Poin – si sta procedendo alla sistemazione di dreni che dovrebbero sostituire le vecchie well-points. Il progetto – gestito, nella fase di fattibilità, dalla società Sviluppo Italia (ora Invitalia) e finanziato con cinque milioni di euro dell’Unione Europea – ha preso avvio nell’area di Prolungamento Strada, ubicata a Est della statale ionica, verso il mare. Si tratta di una delle principali zone archeologiche riportate alla luce durante gli scavi degli anni ’60-’70, condotti con imponenti mezzi da Pier Giovanni Guzzo, e che comprende il seguito della plateia (strada larga) est-ovest che al Parco del Cavallo – dalla parte opposta della medesima statale – passa davanti al teatro. Al di sotto del basolato di età romana, corrispondente dunque al livello stratigrafico della città di Copia, sono state inserite delle condutture orizzontali a pareti forate che attraggono, per gravità, l’acqua di falda, poi convogliata in una vasca e da qui espulsa.

scavi nel santuario di Casa Bianca_Sibari

A intervalli regolari e a una profondità di due-tre metri sono stati inoltre predisposti dei pozzetti d’ispezione uniti, alla base, con i tubi drenanti. L’installazione di questi ultimi nel terreno è stata realizzata rimuovendo – previa documentazione grafica e fotografica – porzioni del suddetto manto stradale, in seguito riposte. Un’operazione quasi chirurgica, che ha sollevato però qualche polemica. Dalla piattaforma patrimoniosos.it, Guzzo esprime preoccupazione per il rischio di danneggiamenti alle strutture antiche che la messa in opera delle «trincee drenanti» potrebbe causare.

Fiducioso del successo del progetto è invece Francesco Prosperetti, Soprintendente speciale per il Colosseo, il Museo Nazionale Romano e l’area archeologica di Roma ma fino al febbraio scorso Direttore Regionale per i Beni culturali e paesaggistici della Calabria: «La sperimentazione consentirà non soltanto un risparmio energetico ma potrà addirittura configurarsi, in futuro, come incentivo economico. L’acqua dolce emunta dai pozzi potrebbe esser destinata ai privati che, a Sibari, occupano terreni adibiti a coltivazioni per circa cinquecento ettari», dichiara.

Al Parco del Cavallo, l’altro grande cantiere aperto a Sibari fin dal ’69, è invece in corso la costruzione di un argine che si ponga a protezione della plateia nord-sud, larga 29,50 metri e proiettata sull’orizzonte magnificamente cinto dalle montagne del Pollino. È senza dubbio su questo tratto di strada, il meglio conservato della Magna Grecia seppur nella «versione» di età romana, che si concentra il senso delle ricerche fin qui portate avanti a Sibari. Se infatti la città arcaica è ancora tutta da scoprire (ma sarà un’impresa realizzabile vista la persistenza di edifici più recenti?), la polis di Thuri, rimasta sostanzialmente invariata nel successivo impianto di Copia, ha permesso di acquisire dati di importanza fondamentale per la storia dell’urbanistica antica.

Attraverso la descrizione della sua fondazione giuntaci da un passo di Diodoro Siculo, sappiamo che Thuri era costituita da sette plateiai, delle quali lo storico greco tramanda persino i nomi: Herakleia, Aphrodisias, Olympias, Dionysias, Heroa, Thuria e Thurina. Dobbiamo soprattutto ai meticolosi studi di Emanuele Greco, che assieme all’infaticabile e compianta Silvana Luppino, ha diretto scavi sul sito dagli anni ’80 a oggi, l’identificazione di tali strade sul terreno nonché l’attribuzione del tracciato viario a Ippodamo di Mileto. L’inventore dello «schema ortogonale», noto per aver progettato il Pireo e forse Rodi, fece molto probabilmente parte di quella schiera d’intellettuali inviati nel V secolo a.C. da Pericle con lo scopo di rifondare Sybaris, missione alla quale presero parte anche il filosofo Protagora ed Erodoto di Alicarnasso, il «padre della Storia». Quest’ultimo ebbe la cittadinanza thurina e non è escluso che la sua tomba si nasconda tra i segreti di Thuri

«Il potere evocativo di Sibari supera la dimensione dei suoi resti» dice ancora Prosperetti; per questo gli sforzi di Alessandro D’Alessio – responsabile del parco archeologico fino all’aprile 2015 e al quale è subentrato ora Simone Marino – sono stati indirizzati a un accurato riallestimento delle collezioni del Museo Nazionale Archeologico della Sibaritide, con l’obiettivo di valorizzare in percorsi temporali e tematici i preziosi reperti che la terra ci ha riconsegnato e attraverso i quali possono ricomporsi quei frammenti di storia sottratti per sempre allo sguardo. Con lo stesso intento «pedagogico-immaginativo», al complesso museale struttura un po’ vintage formata da moduli architettonici replicabili – verranno aggiunte tre unità. Una di esse sarà destinata all’esplorazione virtuale delle tre città visibili e invisibili di Sybaris-Thuri-Copia.

Con il piano informatico di Francesco Antinucci e la sceneggiatura di Emanuele Greco – il quale, alla divulgazione della storia di Sibari, aveva già dedicato un bel romanzo (Il Mantello della Sosandra, Tored 2011) – si potrà presto intraprendere un avventuroso viaggio nel tempo. Seduto come al cinema per assistere a una specie di Ritorno al Futuro all’inverso, lo spettatore «parteciperà» alla distruzione di Sibari, al dibattito a casa di Pericle, fino all’intervento di Ippodamo di Mileto che illustra la sua visione di città…

Intanto, all’ingresso del Parco del Cavallo, si sta procedendo alla riorganizzazione dell’area di accoglienza e al trasferimento dei magazzini – contenenti circa 18mila casse di materiali – in un nuovo deposito, che fungerà anche da laboratorio didattico e di restauro. L’insieme delle opere dovrebbe concludersi nel dicembre 2015. Nell’attesa, Sibari continuerà a offrirsi alle nostre aspirazioni nostalgiche, nella consapevolezza che il difficile compito degli archeologi di conservare per avvicinarci alla realtà antica, è spesso ricompensato dal dono di un sogno possibile.

 

SCHEDA

Fino al 27 luglio, nel sito archeologico di Sibari, in località Casa Bianca, si svolge una nuova campagna di scavi della Scuola Archeologica Italiana di Atene. Dopo una lunga e approfondita ricerca iniziata nel 2004, che ha permesso l’esplorazione completa di uno dei più grandi santuari consacrati a divinità egizie conosciuti attualmente in Italia, obiettivo primario delle indagini in corso è quello di sondare le stratigrafie che precedono il complesso cultuale di età romana. Nella campagna del 2014, infatti, è apparso chiaro che contrariamente a quanto avviene in altre città nelle quali le divinità egizie prendono posto in aree periferiche e non occupate prima a Thuri-Copia il santuario romano si installò al di sopra di uno spazio sacro greco, pertinente alla fase di vita di Thuri (V-III secolo a.C) ma anche di Sibari (VIII-VI secolo a.C.).

Quest’ultimo dato è comprovato dalla scoperta di due capitelli arcaici e di un’antefissa gorgonica di VI secolo. Di epoca domizianea è invece una lastra di bronzo sulla quale venne inciso il ricordo dello scioglimento di un voto a Iside. Le ipotesi dell’attribuzione del santuario di Casa Bianca alla dea egizia che nel I secolo a.C. soggiogò l’eclettico paganesimo di Roma, sono avvalorate dal rinvenimento di uno splendido frammento di toro cozzante negli strati di abbandono del tempio, il quale potrebbe alludere al culto di Api, altra divinità «pop» del pantheon egizio diffusasi nell’impero romano. «La Scuola Archeologica Italiana di Atene è orgogliosa di avere contribuito alla scoperta di una parte considerevole di Sibari, città tra le più straordinarie della Magna Grecia e in generale dell’Italia antica», ci dice Emanuele Greco, direttore della prestigiosa istituzione da quindici anni. «E’ merito della Arcus s.p.a aver dotato la Saia, la quale per statuto si occupa di civiltà greca antica in tutto il Mediterraneo, dei fondi necessari a portare avanti un progetto che, altrimenti, non avrebbe mai visto la luce» conclude con velata amarezza Greco.

Per l’ennesima volta, infatti, l’illustre studioso tarantino ha dovuto lanciare dal sito web www.scuoladiatene.it un appello di crowdfunding per salvare il nostro unico istituto archeologico all’estero, attivo dal 1909, dai sempre più spietati tagli alla cultura del governo italiano.

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