È finita. Dopo 616 presenze la carriera di Daniele De Rossi con la maglia giallorossa si è conclusa. L’addio di domenica sera di fronte a 62.304 spettatori è stato una centrifuga di rabbia, pioggia, lacrime.

Una celebrazione imbarazzata, salvata solo dall’affetto sincero dei giocatori in campo e dal carisma di un mister senza uguali come Claudio Ranieri. Un addio senza parole, solo cori e striscioni dei tifosi.

La Roma (squadra) non sarà mai più la stessa. Se Totti è stato per decenni il deus ex machina, il guizzo imprevisto capace di trasformare una partita anonima in storia, De Rossi è stato «il mio io in campo», come recitava uno tra gli striscioni più belli visti ieri all’Olimpico.

La galleria degli spalti domenica 26 maggio all’Olimpico

(foto LaPresse)

 

«SIAMO TUTTI DDR» ha urlato al cielo la curva sud per 90 minuti e oltre, non risparmiando la società dalla contestazione  (come a dire: provate a cacciarci tutti). Con un’altra insegna: «De Rossi è il romanismo»: esagerato, caldo, arguto, audace, mai troppo vincente ma autentico.

Così è stata la celebrazione di un capitano-tifoso umano, troppo umano, che lascia con una promessa d’amore e un semplice «arrivederci». Impossibile non ricordare, due anni fa, un capitano-divinità che chiudeva maledicendo il tempo e rivelando tutta la paura di non essere all’altezza, fuori dal campo, della propria leggenda. Entrambi hanno torto.

La redazione consiglia:
Il Capitano bambino diventa uomo, l’addio commovente di Totti

LE LORO STORIE DI CAMPIONI restano nella memoria di chi le ha vissute. Il problema è di chi non le ha vissute, e proprio a questo servirebbero le società di calcio: a migliorare durante le stagioni la storia sportiva di una squadra e di certi colori.

La redazione consiglia:
La favola del capitano

Da questo punto di vista la festa di domenica è stato il trionfo dell’ipocrisia. Non sul campo, con giocatori e staff che versavano lacrime di fronte a uno stadio che forse non sarà mai più così pieno. Ma attorno.

L’AZIENDA ROMA ha divorato la squadra Roma. Una Roma finalmente (quasi) «deromanizzata», svuotata dall’interno come il Colosseo di cartapesta in un set di Hollywood.

Come possono «festeggiare» De Rossi quelli che lo hanno cacciato? Come possono tramandarne l’esempio quelli che lo hanno considerato un giocatore rotto e non più utile allo sport?

Ieri dopo il fischio finale abbiamo visto il nuovo (bravissimo) «capitan futuro» Alessandro Florenzi cadere in lacrime a terra, da solo, consapevole che Roma è troppo grande per poter stare su spalle meno che immense.

Che negli spogliatoi quando muore un papa non se ne fa un altro. Che chi capisce solo di calcio non capisce nulla di calcio (diceva a ragione Mourinho).

La galleria dell’addio di Daniele De Rossi
(foto LaPresse)

Gli anni dieci della Roma americana terminano senza trofei. Tanti addii (non solo i due capitani romani e romanisti ma anche campioni come Salah, Alisson, Pjanic, Nainggolan, Lamela, Marquinhos e gli altri che lasceranno in questi giorni). Una girandola di allenatori e zero titoli in bacheca.

JIM PALLOTTA REGNA in una Trigoria «social» e moderna, ma vuota. Vuota di sentimenti (che in riva al Tevere sono stati sempre tanti) e di vittorie (sempre poche).

Domenica perciò non se ne è andato solo Daniele De Rossi. All’uscita dallo stadio raramente si è «sentito» un silenzio simile. Sembrava l’uscita da una cattedrale dopo un funerale. Mai visti migliaia di tifosi uscire così taciturni, raccolti ciascuno in una propria umida versione di sconfitta e solitudine.

UNA COMUNITÀ A PEZZI. Definitiva, lasciando l’Olimpico, la sentenza di una bambina di forse 10 anni a un padre che gli chiedeva della Roma: «Papà, la Roma pensa solo ai soldi, vendono tutti». In questo calcio il re Pallotta è nudo.