Che i titoli del manifesto suscitino spesso nel mondo della stampa apprezzamenti e anche un po’ di invidia, lo sapevamo. Ma apprendo solo adesso della vittoria di mille bottiglie di spumante con il titolo «Sono Stato» sul secondo mandato di Napolitano.

Certo, l’occasione meritava. Il discorso alle Camere riunite del 22 aprile 2013, oltre ad essere un testamento politico del Napolitano presidente, ha per molte parti, il sapore di un programma di governo. Certo non è un paludato discorso di insediamento. Possiamo ritrovare in quel testo tutte le domande, i dubbi, le questioni più o meno risolte che vediamo oggi scorrere nei commenti sulla sua morte. Fu davvero King George? È corretto dire che abbia slargato oltre misura, e in modo irreversibile, il ruolo e i poteri del presidente? Ha interpretato bene il contesto storico e politico in cui si è trovato ad agire? Alla fine, era giusto o sbagliato che avesse una sua lettura dell’interesse del paese da perseguire nell’esercizio delle sue funzioni?

Non c’è dubbio che Napolitano presidente abbia avuto uno stile diverso dai suoi predecessori. Sia Scalfaro che Ciampi avevano mostrato quello che potremmo definire un maggiore self-restraint. Ma va sottolineato a mio avviso che il ruolo del presidente della Repubblica si definisce nel nostro sistema in modo strettamente complementare rispetto alla politica e ai soggetti che in essa operano. Politica e partiti solidi riducono lo spazio disponibile per il presidente, mentre la loro frammentazione e inconsistenza lo ampliano. Al di fuori di ipotesi impensabili di rottura istituzionale, un parlamento e un governo che volessero arginare le intemperanze del capo dello Stato potrebbero agevolmente farlo nel rispetto della Costituzione e delle prassi consolidate. Se non lo fanno, è anzitutto alla loro debolezza che vanno imputate le responsabilità.

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Con Napolitano, nessuno di quelli che avrebbero potuto dire no ebbe la forza, o il coraggio, di parlare. Che abbia fatto bene o male Napolitano negli anni cruciali dal 2010 con i governi Berlusconi e Monti, e con il fallito tentativo di Bersani è un giudizio che ormai spetta alla storia. In ogni caso, le responsabilità non ricadono solo su di lui.

Personalmente, ho avuto le maggiori perplessità sulle scelte di Napolitano presidente in tema di riforme istituzionali. A partire dalla nomina, nel 2013, di dieci “saggi” con il compito di elaborare proposte finalizzate a creare le condizioni per la formazione di un governo. Produssero inutili relazioni. Cinque dei saggi confluirono poi nel governo Letta, che pensò bene di nominarne a sua volta trentacinque. Un metodo – quello dei saggi – inevitabilmente fallimentare. E un obiettivo mal posto, visto che guardava alla seconda parte della Costituzione senza coglierne a fondo le interazioni inevitabili con la prima parte, e soprattutto caricando sulla Carta fondamentale problemi derivanti dalla frammentazione della politica, in un paese diviso e oppresso da crisi ed emergenze.

Ma si deve dare atto a Napolitano di avere più volte richiamato nelle sue esternazioni i temi dell’eguaglianza dei diritti, della coesione sociale e territoriale, dell’unità del paese, del Mezzogiorno.

Ho votato per Napolitano al suo primo mandato, nel 2006. Per quella fase non condivido i titoli del manifesto. Nei palazzi della politica ci furono momenti di emozione, per la novità comunque importante di un ex-comunista al Quirinale. Ero stato vicino al primo Napolitano, che mi aveva anche sostenuto nella elezione al consiglio comunale di Napoli nel 1992, pur non conoscendomi affatto, dal momento che io non ero in alcun modo parte del nucleo storico del partito napoletano. Quel momento segnò l’avvio della mia esperienza nelle istituzioni. Ma dall’ultimo Napolitano – in specie per l’atteggiamento sulle riforme costituzionali tanto sottolineato proprio nel discorso del 2013 – mi sentivo piuttosto lontano.

Uscendo dal parlamento nel 2008 mi ero collocato a sinistra del Pd, di cui non avevo preso la tessera. Ero dal mio primo giorno in politica un socialdemocratico. Cambiando il mondo, e rimanendo io uguale, mi ero trovato ad essere un radicale di sinistra. Forse troppo, per Napolitano. Andrea Geremicca, presidente della Fondazione Mezzogiorno Europa ispirata da Napolitano, di cui ero socio sin dall’origine, mi riferì che il presidente sperava che tornassi a fare il professore universitario. L’ho fatto solo in parte. Ma chissà che non avesse ragione.