Shooting in Sarajevo, sparare, fotografare
Il libro Il progetto del fotografo Luigi Ottani con l’attrice e autrice teatrale Roberta Biagiarelli, Edizioni Bottega Errante
Il libro Il progetto del fotografo Luigi Ottani con l’attrice e autrice teatrale Roberta Biagiarelli, Edizioni Bottega Errante
Una ragazza cammina per strada, l’ombrello rosso la ripara dalla pioggia. Una donna aspetta l’autobus accanto alla palina della fermata. Un uomo passeggia, la sua ombra si allunga sul bambino che lo precede di pochi passi. Un tram pieno di passeggeri sfila lungo i binari. Traffico d’auto e folla riempiono una piazza del centro. Soggetti che potrebbero apparire banali, se non fosse per la croce disegnata da sottili trattini, al centro esatto di ciascuna foto. La croce di un mirino. Ieri, una trentina di anni fa, era il mirino dello Zastava M76, il micidiale fucile dei cecchini dell’esercito serbo bosniaco, che in quattro anni di assedio, dal 5 aprile 1992 al 29 febbraio 1996, fecero di Sarajevo un immenso bersaglio su cui sparare senza pietà, punteggio finale 11.541 vittime, cinquantamila feriti. Oggi è il mirino della macchina fotografica di Luigi Ottani, autore del volume Shooting in Sarajevo (Edizioni Bottega Errante, 20 euro), frutto di un progetto con l’attrice e autrice teatrale Roberta Biagiarelli.
Tra il 2015 e il 2019, Roberta e Luigi hanno trascorso lunghi periodi nell’odierna capitale della repubblica federale di Bosnia ed Erzegovina, lavorando a un’idea ben precisa: fotografare la gente, i quartieri, le vie e le piazze, i palazzi della città, da quelle che erano le postazioni dei cecchini. Quando la pressione dell’indice non faceva scattare un pulsante, ma il grilletto dello Zastava M76. Ottani, cinquantacinque anni, appartiene a una generazione che Sarajevo in guerra se la ricorda «Le immagini televisive di allora, poi in circolazione sul web, mostrano esseri inermi che scappano, corrono, si nascondono per cercare scampo. Non esistono, ovviamente, immagini dalla prospettiva di chi ogni giorno uccideva donne, uomini, bambini».
Il termine inglese shooting ha un duplice significato, sparare e fotografare. Ed è proprio questa duplicità ad aver suggerito a Luigi lo spunto per ravvivare la memoria di una tragedia, guardandola di nuovo dietro un mirino. Fotografare, sparare «Ne parlai con Roberta, che subito dopo la fine del conflitto aveva cominciato a viaggiare nei Balcani. Grazie alla sua amicizia con giornalisti, scrittori, operatori umanitari in Bosnia, abbiamo iniziato a mappare Sarajevo, il monte Trebevic, gli immediati dintorni urbani, individuando le basi operative dei cecchini. A distanza di pochi giorni ci siamo accorti che il mio reportage stava trasformandosi in qualcosa di molto più grande».
Il cambiamento avviene prima di tutto dentro Ottani. Il confine, la separazione, tra fotografare e sparare si assottiglia «Inquadravo nell’obbiettivo i passanti, una persona al balcone di un palazzo, una coppia mentre attraversava un ponte. Mi accorsi che stavo indossando i panni del cecchino, mi immedesimavo in un individuo assolutamente libero di decidere se cancellare o risparmiare una vita. È stata un’esperienza molto forte e del tutto inattesa».
Le vere protagoniste di Shooting in Sarajevo non sono le pur notevoli foto di grande formato. Al centro di buona parte delle pagine, su fondo neutro, spicca un’immagine chiusa nella cornice bianca e inconfondibile di una polaroid. Un espediente grafico che diventa richiamo. Perché, ai tempi dell’assedio, la morte aveva somiglianza con una polaroid. Pochi secondi, magari uno solo, ed eccola comparire. Bastava trovarsi, senza saperlo, nel posto o nell’attimo sbagliato. Sarajevo polaroid è il titolo dell’intervento di Roberta Biagiarelli, una raccolta di testimonianze come istantanee dai colori scuri, di crudele eloquenza.
Azhra Nuhefendic ricorda l’appartamento dei genitori in un condominio deserto nel quartiere di Grbavica, la porta sempre aperta perché un cecchino si era sistemato lì, e sparava dalla finestra della stanza dove il padre di Azhra dormiva. Anche l’appartamento di Vesna Ljubic, tornata a Sarajevo nel Duemila, era servito a un killer seriale per svolgere il proprio compito «Ho ritrovato nelle stanze libri di anatomia e tanti quaderni di appunti scritti con grafia minuta e ossessiva…». Racconta ancora, Vesna, di un vicino bosniaco tornato a fare il fabbro.
Del suo provvisorio mestiere di assassino non ha mai voluto parlare. Nadira Sehoviv rammenta di aver scoperto con orrore l’esistenza dei «cecchini del weekend», i vikendice snajper. «La ‘gente per bene’ che nel fine settimana andava a fare una battuta di caccia all’uomo… Onorabili padri di famiglia che si muovevano dal Montenegro e dalla Serbia, ma anche da altri paesi europei, al sicuro da responsabilità e sanzioni». Faruk, il marito di Kanita – Ita Focak, se n’è andato presto, era la primavera del 1992. Seduto di fronte al televisore, stava guardando un servizio che documentava strani movimenti di mezzi militari sulle vicine montagne. All’improvviso, un proiettile esplosivo della contraerea aveva bucato una parete di casa e ucciso Faruk sulla poltrona. «Kanita ha conservato il foro nel muro, dietro lo specchio. Vietato ripararlo».
Jovan Divak, generale jugoslavo, dall’aprile 1992 vicecomandante della Difesa Territoriale della Bosnia ed Erzegovina, ha fondato nel 1994 l’associazione Obrazovanje gradi BiH – OGBH (L’istruzione costruisce la Bosnia ed Erzegovina). La punta velenosa è il titolo del suo intervento.
A pagina 24, Divak scrive «… ricordo ancora molto bene il giorno in cui uno dei cecchini, sparando dalla posizione dell’esercito ribelle serbo, uccise una bambina nella via principale di Sarajevo. Il padre della bimba si comportò come l’eroe di una tragedia antica, e con molta umanità disse ‘Vorrei incontrarlo e chiedergli perché ha ucciso mia figlia, perché ha sparato al mio angelo, una creatura innocente. Non gli farei niente, non mi vendicherei, gli chiederei solo: come ti sentiresti se anche tuo figlio venisse ucciso così?».
Domanda vana, destinata cadere nel vuoto profondo di un’indifferenza che la lunga e bellissima cronaca dal passato, a firma di Azra Nuhenfendic, giornalista e scrittrice di origine bosniaca, rivela in tutta la sua atrocità. «Forse la cosa più dolorosa, la più dura, fu imparare a non accorrere subito in aiuto di chi veniva colpito. I cecchini giocavano con noi. La prima vittima veniva ‘solo’ ferita, apposta: gli serviva come esca. Poi aspettavano che sopraggiungesse qualcuno a soccorrerla e così si divertivano a uccidere sul posto più persone».
Ciò che maggiormente sgomenta nella cronaca di Azra è la descrizione delle reazioni collettive che la guerra invisibile dei cecchini aveva saputo, e voluto, scatenare. All’iniziale stupore, all’incredulità, si era sostituita la rabbia, diventata disperazione, cresciuta a paura, debordata nel terrore. Passo, grado successivo, la sopravvivenza «Con il passare del tempo… abbiamo imparato a proteggerci… Si sceglievano i percorsi più sicuri, si passava là dove le barricate facevano da scudo ai mirini dei fucili. Abbiamo imparato che tra uno sparo e l’altro… c’era il tempo di contare fino a 15: durante quei pochi secondi avevamo appena la possibilità di attraversare un incrocio o correre da una strada all’altra».
Delle trentotto ‘polaroid’ di Luigi Ottani, una ritrae il davanzale della finestra di una vecchia casa. Sopra, un vaso di fiori freschi. Guardi la foto e ti viene da pensare ‘Adesso qualcuno si sporgerà per cambiare l’acqua, o metterli al riparo dal caldo del sole’. Guardi la foto, ‘Non farlo’. Shooting in Sarajevo. Sparare, fotografare.
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