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Shipwreck crime, una rotta balcanica

Shipwreck crime, una rotta balcanicaFoto di Italo Rondinella da «Shipwreck Crime»

La mostra A Venezia gli oggetti dei naufraghi parlano: un progetto sulla «commozione»

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 20 giugno 2020

Il tratto di mare che separa la costa turca dall’isola greca di Lesbo rappresenta la fine del viaggio per molti migranti provenienti da Siria, Iraq e Afghanistan. Alcuni riescono a raggiungere l’approdo in terra europea, molti altri no. Le tracce che rimangono di queste persone sulle spiagge da cui sono partiti a volte sono così comuni da essere invisibili: uno zainetto, una scarpa da bambina, un biberon, alcune fototessere.

A restituire dignità alle loro storie tramite questi oggetti ci ha pensato Shipwreck Crime la mostra di Italo Rondinella, fotoreporter e videomaker bolognese, ma di stanza a Istanbul. Inaugurata il 30 maggio ai Magazzini del Sale di Venezia dopo due mesi e mezzo di attesa la mostra resterà aperta fino al 19 luglio. L’esposizione, realizzata con il patrocinio tra gli altri dell’UNHCR, è allestita in una grande sala di mattoni ocra per gentile concessione della Reale Società Canottieri Bucintoro, e adiacente a un deposito di barche. Shipwreck Crime, «crimine di naufragio», si propone come un catalogo fotografico e reale per raccontare pezzi delle storie di queste persone, troppe volte ignorate: alle pareti ci sono le fotografie degli oggetti appartenuti ai profughi che hanno intrapreso il grande viaggio verso l’Europa, ma il visitatore può osservare gli stessi oggetti recuperati ed esposti da Rondinella, in tutto 44.

Rondinella si è recato ad Asso, tra Babakale e Ayvalik, nel 2017, per rintracciare resti del grande flusso del 2015. Allora le acque tra Turchia e la Grecia erano diventate una delle rotte principali verso l’Europa, soprattutto per i profughi siriani in fuga da quattro anni di guerra civile, ma non solo. «Quella località è un’antica colonia greca» spiega Rondinella, «e in alto c’è un tempio di Atena che benediceva la navigazione. Tanti secoli dopo è invece testimone di imprese della navigazione così tragiche». A poca distanza dagli ombrelloni affollati dai bagnanti il fotografo ha trovato tratti di spiaggia ancora abbandonati a loro stessi con tantissimi oggetti portati dalla corrente. «L’idea era fare un catalogo di questi oggetti. Ho iniziato a fotografare quello che trovavo cercando di dare una sistematicità alle foto, usando la stessa inquadratura e la stessa luce». Ma non era abbastanza. «È successo che mi sono commosso» racconta senza giri di parole Rondinella. Il giorno seguente è tornato sulla spiaggia con due grandi sacchi neri appena acquistati per recuperare quei pezzetti di vita abbandonati più di un anno e mezzo prima, sottraendoli all’oblio. L’intento quello di far rivivere le storie di queste persone attraverso i loro oggetti di uso comune.

«Per come è narrata la migrazione diventa un racconto distante da coloro che la vivono», dice. Il rischio che evoca il reporter è che le persone si tramutino in numeri e tutta questa sofferenza si riduca a fenomeno. «Nelle news i migranti non parlano quasi mai». I protagonisti scompaiono. Di rado ci immedesimiamo in loro, spiega Rondinella. Prevale una descrizione di qualcosa di astratto, condita da immagini tragiche che non fanno che creare distanza e nelle quali i contorni delle persone sfumano e si confondono. «Questi oggetti hanno invece la potenza di essere degli oggetti comuni, di tutti». Per questo delle più di 100 foto scattate sulla spiaggia turca l’autore ha selezionato solo quelle di cui disponeva gli oggetti.

Diverse paia di scarpe, molte da bambino, sono esposte in mezzo alla sala. In un’altra stanzetta separata, alla fine della mostra, ci sono gli altri oggetti recuperati e disposti sopra un tavolo. Ecco allora una ciabatta, un sandalo spezzato, un marsupio, alcune pillole, una scarpa da bambina di Hanna Montana, un portafogli di Hello Kitty, un vestitino giallo da bambina, alcune paia di jeans, un libro di preghiere in farsi e perfino un pezzo di bandiera turca.
Tutte queste cose giacevano ancora ad anni di distanza in un luogo di vacanze attrezzato. «Le parti di costa dove la gente faceva il bagno sono ripulite e separate da quelle dove si trovano gli oggetti. Mi è parso emblematico che ci fossero queste due realtà nello stesso posto e che fossero separate e non comunicanti». Per questo motivo Rondinella ha registrato le voci dei bagnanti e i suoni della spiaggia, i cui scogli si vedono nitidamente in una sola fotografia. Questa colonna sonora straniante avvolge il visitatore mentre guarda le fotografie.

Rondinella sottolinea come la mostra non sia un progetto sul fenomeno migratorio bensì sulla commozione, anche se «non voglio suggerire niente a nessuno» specifica. «Io mi sono commosso. Parlo di commozione perché parlare a livello mediatico di immigrazione è fuorviante, vengono spesso usate parole inappropriate che non rendono». Come scrive Anna Lucia Colleo nel testo che presenta la mostra «Shipwreck Crime riguarda persone che sono o non sono riuscite ad arrivare sulle coste europee su una barca di gomma, ma non parla di immigrazione».

Rondinella spiega che quello che ha cercato di fare è stato «normalizzare», raccontare in termini normali qualcosa che ci appare straordinario, ma in realtà non lo è. «Dobbiamo ricordarci che sono persone come noi, a volte con un background che neanche ci aspetteremmo. La commozione nasce da questo». Nella visione di Rondinella è la quotidianità di questi oggetti e vestiti a chiamare alla compassione. «Se vedo questa scarpa – io non ho figli – penso alle figlie dei miei amici» confessa l’autore, sottolineando il potere evocativo universale.

Rondinella che da osservatore privilegiato ha già raccontato altre volte a suo modo quello che ancora fatica a chiamare «fenomeno» migratorio, non nasconde cosa ne pensa profondamente e politicamente. «Credo che questo sia un processo inevitabile. Le persone si muovono per cercare condizioni migliori. Non dovremmo accogliere questo fenomeno come un peso ma come un’opportunità per la nostra comunità». La rotta balcanica dei migranti intanto non si è mai fermata neppure dopo l’accordo del 2016 tra l’Unione Europea e il presidente turco Erdogan. Gli arrivi sulle coste greche, sono diventati sempre più numerosi dallo scorso autunno, quando Erdogan ha allargato le maglie del proprio confine. Il governo greco è invece accusato da molteplici testimonianze di operare respingimenti illegali nei confronti dei migranti che partano dalla costa turca in cerca di una vita migliore. Ancora una volta, e anche per l’Europa, solo numeri, e non persone e storie.

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