«Il mio modo di fare arte è molto spontaneo», afferma Shimabuku (Kobe, 1969, vive e lavora Naha, nell’isola di Okinawa) in occasione della sua mostra Shimabuku. Me, We, curata da Bart van der Heide al Museion di Bolzano, in collaborazione con Mutina For Art e con il sostegno di Pola Art Foundation (fino al 3 settembre).
Questa prima personale italiana dell’artista giapponese, la più ampia in Europa, è attraversata da una leggerezza consapevole densa di significati, relazioni, rimandi e storie, in un flusso poetico costante che cattura il visitatore. A partire dal titolo stesso Me, We («Io, Noi») – «metafora della sua pratica artistica» che, come ricorda il curatore, trae ispirazione dalle parole dette dal pugile Muhammad Alì quando nel 1975 era stato invitato a tenere una lezione ad Harvard. L’omonima installazione site-specific è realizzata con materiali di scarto, provenienti da edifici della zona, il Mauracherhof, un’antica costruzione in corso di ristrutturazione e l’Ex-Montecatini (ex-Solland Silicon), una fabbrica dismessa.
«Quando ero al san Francisco Art Institute, nel 1991, sognavo di venire in Europa. Alla fine, una borsa di studio me l’ha permesso – racconta Shimabuku – . Mi veniva restituita la retta che avevo versato e, anche se erano pochi soldi, che servirono giusto a coprirmi le spese di viaggio, andai a Londra. Da lì mi spostai nel continente, viaggiando in treno per undici paesi con l’Eurail Pass – erano sempre treni notturni – per visitare soprattutto i musei. Quello studente povero di allora non avrebbe mai immaginato, un giorno, di poter avere una mostra così importante nel Museion di Bolzano».

In relazione a quel momento è significativa la foto in bianco e nero «Viaggio per l’Europa con un sopracciglio rasato» che risale al 1991…
Ho cominciato nella metropolitana di Londra ma nessuno mi ha mai chiesto il motivo del mio strano volto con il sopracciglio tagliato, neanche i miei compagni di stanza. In Italia, invece, le persone erano curiose, mi domandavano cosa mai mi fosse successo. Io rispondevo che quel volto era la mia unica opera d’arte. Come artista mi ero interrogato su cosa potessi fare senza soldi e, alla fine, era scaturita quella idea. Non possedevo uno studio, né un posto dove lasciare il mio lavoro o gallerie dove esporlo: la mia faccia avrebbe potuto essere l’installazione da mostrare in giro. Era il mio spazio libero e anche il mio spazio pubblico. Dopo le domande, gli italiani poi mi invitavano sempre a casa loro per cena (sorride).

Shimabuku (foto Manuela De Leonardis)

All’epoca quali erano gli artisti che stimava?
Mi interessava molto la sperimentazione dell’Arte povera. A Milano andai a trovare Luciano Fabro, o meglio bussai alla sua porta – all’epoca non c’erano le email – ma lui era fuori, così vidi solo il suo assistente. Però ho avuto l’occasione di incontrare Hidetoshi Nagasawa, che fu molto gentile. Visitai numerosi musei, andai a Torino al Castello di Rivoli e a Venezia dove, benché in quel momento non ci fosse la Biennale d’arte, ai Giardini mi immersi comunque nei padiglioni vuoti.

Lei è nato a Kobe e vive a Okinawa, il suo lavoro però non è attraversato da un senso di identità nazionale, ma da un sentimento di dislocamento…
Mio padre, Shigeo, era nato nell’isola di Saipan nell’oceano Pacifico e durante la seconda guerra mondiale fu catturato dagli americani, successivamente tornò in Giappone a Okinawa e poi a Kobe dove conobbe mia madre Katsuko. In famiglia era un po’ come qui a Bolzano dove si parlano lingue diverse, il tedesco e l’italiano. Mio padre aveva uno strano dialetto, mi ricordo che da ragazzino gli amici me lo facevano notare. Anche mia madre proveniva da un altro luogo. Nessuno di noi era del posto. Io stesso, benché fossi nato a Kobe, ero come un emigrante. Anche dal punto di vista caratteriale i miei genitori erano diversi: mio padre era più «selvaggio», mentre mia madre aveva una sua statura intellettuale. Credo di aver preso qualcosa da entrambi. Fin dall’inizio, sono stato avvolto da questo incontro tra culture diverse.

Come avviene il passaggio dall’idea alla realizzazione dell’opera?
Non sono abituato a realizzare molti schizzi, ma ci sono degli haiku o frasi che assumono rilevanza. Il titolo stesso dell’opera è qualcosa di più: non si tratta della spiegazione, una didascalia, ma è parte del lavoro stesso.

«Exhibition for the Monkeys», 1992

Nel suo sguardo sugli oggetti e gli animali – il polpo è molto presente nelle sue opere – c’è un approccio legato all’animismo o alla religione shintoista?
Non seguo una determinata religione, ma essendo cresciuto in Giappone ho avuto modo di assorbire sguardi e comportamenti rispetto alle cose. A proposito di religione, comunque, mi ha ispirato anche san Francesco d’Assisi che parlava con gli uccelli. Gli animali sono fondamentali nel mio paesaggio esistenziale. D’altro canto, sono cresciuto a Kobe, città famosa per la carne di manzo ma anche per il polpo. Era il mio vicino di casa, proprio come gli uccelli per san Francesco. Potevo incontrarlo tutti i giorni al mercato del pesce, perciò ho ritenuto di dovergli rendere omaggio.

«Caco e Pomodoro» (2008) – icona della mostra – è un’immagine che rimanda alle piccole apparizioni del quotidiano…
Lavoro molto nella mia cucina. In un certo senso, è il mio studio e lì dentro scopro sempre qualcosa di nuovo. Quella volta, avevo comprato un caco e un pomodoro e li avevo posizionati sul tavolo. Sprigionavano qualcosa di magico, erano simili ma con un sapore completamente diverso. Li ho fotografati proprio lì dove si trovavano, in un modo davvero spontaneo.

Qual è il parallelo tra cucinare e fare arte?
Ha molto a che fare con il rapporto con gli ingredienti. Certe volte non c’è neanche bisogno di cucinarli, li mangi così come sono. La cosa interessante è che spesso sono gli ingredienti stessi a insegnarti come amalgamarli. Basta guardarli. Lo stesso avviene con altri materiali, ad esempio il cemento. È la materia stessa che indica come utilizzarla. Forse in questo atteggiamento c’è molto della cucina giapponese. Un’altra cosa fondamentale è quella di viaggiare con un coltello. Ovunque tu vada puoi avere i prodotti locali, basta però che abbia con te il coltello. C’è chi porta sempre l’ombrello, io invece il coltello.

Kaki and Tomato, 2008

Pensando a opere come «Il viaggio del cetriolo. Gurken-Reise» (2000), attraversata ancora una volta da un senso di humor, «Cipolla-Orione» (2011), la tua versione poetica di «Fish & Chips» (2006) o «Luna e Patata» (2023), la cucina entra anche nel suo approccio all’arte relazionale?
Mi interessa anche il fatto che il cibo renda le persone felici. Il cibo si mangia e sparisce. La mia arte è difficile da ingurgitare, ma in un certo senso anch’essa svanisce. L’umorismo non va mai dimenticato.

Il lavoro «Nata come scatola» del 2001 ha un «tono» particolarmente ironico
Ha ascoltato quella dove parlo in italiano? Come le sembra il mio accento? C’è stato un momento quando ero in Giappone che, non potendo campare con l’arte, trovai lavoro in una ditta di spedizioni. Ogni giorno dovevo controllare migliaia di scatole, alla fine diventai paranoico. Le scatole mi parlavano e anch’io cominciai a farlo con loro. Così, grazie a quei tempi magri, è nata l’opera.

C’è una relazione tra i diversi media che utilizza?
Tornando al discorso della cucina è come quando per preparare un buon piatto servono diversi ingredienti. Ci sono volte in cui occorrono parecchie ore per elaborarlo, altre invece tutto avviene in maniera veloce. Il mio desiderio è semplicemente quello di cucinare qualcosa che sia gustoso per l’anima.