Shelley Winters, regina delle passioni
L'attrice Centocinquanta film attraversati con devozione: cento anni dalla nascita di una grande interprete
L'attrice Centocinquanta film attraversati con devozione: cento anni dalla nascita di una grande interprete
Se pensiamo a Shelley Winters, colleghiamo il suo volto perlopiù a personaggi dalla psicologia contorta, a surrogati materni costipati di possessività malata. Siamo stati abituati a vederla ciclicamente sullo schermo in più di 150 film (stando alle fonti) spalmati lungo 60 di carriera. Due Oscar vinti, quattro matrimoni celebrati, una figlia (Vittoria, avuta da Gassman), innumerevoli notti roventi con amanti passionali (da Burt Lancaster a Marlon Brando), una filmografia invidiabile, due autobiografie «piccanti» pubblicate, e una ferrea quanto cronica determinazione lavorativa.
Shirley Schrift nacque il 18 agosto di cento anni fa a East St. Louis (Illinois) da Rose e Jonas, di discendenza ebraica. All’età di nove anni si trasferì con la famiglia a Brooklyn dove iniziò a dedicarsi alla recitazione, alternandola con lavori di commessa e modella. Bionda dal viso irregolare, sguardo furbetto e ammiccante, caparbia e «luminosa», venne notata sui palchi di Broadway da Harry Cohn, boss della Columbia, durante una replica del musical Oklahoma! Era il 1943 e la giovane non ci pensò due volte a firmare il contratto offertole: si trasferì a Los Angeles e da Shirley passò al meno abusato Shelley, accostandolo a Winter (inizialmente senza «s» finale, aggiunta in un secondo momento).
I primi ruoli su celluloide sono brevi comparsate non accreditate, della lista si possono ricordare Che donna! (1943) con Rosalind Russell, e Fascino (1944) con Rita Hayworth e Gene Kelly. Nel 1947, finalmente, George Cukor le affida una parte di spessore, quello della sfortunata cameriera (strangolata da Ronald Colman) in Doppia vita. La carriera di Shelley subisce una lieve impennata, tra il 1948 e il 1950 lavora con Howard Hawks, Robert Siodmak e Anthony Mann, ma è grazie a Un posto al sole (1951, di George Stevens) che ottiene la sua prima candidatura agli Oscar per Alice Tripp, operaia indigente e scialba, irretita da Montgomery Clift, abbandonata vigliaccamente da quest’ultimo al suo infelice destino.
Da questo momento comincia a godere di maggior libertà contrattuale da parte delle case cinematografiche: decide, tra un film e l’altro, di frequentare i corsi dell’Actors Studio per forgiare la tempra recitativa (diventerà docente a sua volta presso la sede di New York). Poco incline a compromessi e dalla schiettezza fumante, Winters, nonostante le «sgomitate» sul lavoro, dovette lottare ancora – e tenacemente – per confermare a pieno regime lo status di «attrice da prima linea» (non quello di «diva», attenzione).
Le occasioni migliori arrivano dal 1955 in poi con La morte corre sul fiume (di Charles Laughton – fu anche suo docente di recitazione), Il grande coltello (di Robert Aldrich), Il diario di Anna Frank (di George Stevens) in cui ottiene il primo Oscar come miglior attrice non protagonista – nel ruolo di Petronella van Daan alias Auguste van Pels-Röttgen – che devolverà a Otto Frank per onorare le proprie radici ebraiche. (Dal 1975 il premio è esposto nella Casa di Anna Frank ad Amsterdam). Nel 1962 Stanley Kubrick la sceglie per il ruolo della tormentata Charlotte Haze, madre di Sue Lyon/Lolita nell’omonimo film: fu un’esperienza travagliata dovuta soprattutto alle mancanze di professionalità di Winters, in particolar modo nei confronti di James Mason. Conquista poi il secondo Oscar per Incontro a Central Park (1965, di Guy Green) nel ruolo di un’altra madre ingombrante che vuole ostacolare l’amore nascente tra la figlia non vedente e il giovane Sidney Poitier: una parte che lei stessa detestò per via della questioni razziali ad essa legate.
Complice un considerevole aumento di peso corrisposto dall’avanzare dell’età, i ruoli che affronta dopo la vittoria agli Academy virano verso il recinto delle caratterizzazioni. In Detective’s Story (1966, di Jack Smight), col personaggio di Fay Estabrook, diventa caricatura di se stessa: ex stellina del cinema, etilista, ingorda di cibo e sesso, appellata crudelmente da Paul Newman/Lew Harper come «vescica di alcol e grasso».
Negli anni 70 vediamo come le onde della distorsione materna e di un’inquietudine grottesca diventino il cavallo di battaglia delle sue performance: Il clan dei Barker (1970, di Roger Corman), Chi giace nella culla della zia Ruth? (1971, di Curtis Harrington), Cleopatra Jones: licenza di uccidere (1973, di Jack Starrett), Stop a Greenwich Village (1976, di Paul Mazursky), L’inquilino del terzo piano (1976, di Roman Polanski). E, in particolar modo, i titoli legati alle produzioni italiane come Gran bollito (1977, di Mauro Bolognini) dove impersona Leonarda Cianciulli, la terrificante saponificatrice di Correggio – doppiata da Regina Bianchi e affiancata dal terzetto en travesti composto da Alberto Lionello-Renato Pozzetto-Max von Sydow -, Un borghese piccolo piccolo (1977, di Mario Monicelli) sublime nel tratteggiare gli orrori dell’ictus causatole dalla perdita dell’unico figlio, e Stridulum (1979, di Giulio Paradisi), in cui pare abbia realmente sbattuto su un tavolo la giovane protagonista Paige Conner durante le riprese. Non va inoltre dimenticato il celebre episodio di quando, ospite di Johnny Carson al Tonight Show, rovesciò whisky in testa a Oliver Reed per via di alcune frasi sessiste pronunciate da quest’ultimo.
S.O.B. (1981, di Blake Edwards), Delta Force (1986, di Menahem Golam), Il silenzio dei prosciutti (1994, di Ezio Greggio), Dolly’s Restaurant (1995, di James Mangold), Ritratto di signora (1996, di Jane Campion) sono gli ultimi titoli di una carriera variopinta, fino al canto del cigno con La bomba (1999, di Giulio Base), dove ritrova il suo ex marito Vittorio Gassman.
I rapporti tra i due sono sempre rimasti buoni e durante un’intervista – rilasciata nel 1994 a La Repubblica – parlando della figlia Vittoria, l’attore disse: «Il mio matrimonio con sua madre, Shelley Winters, durò solo due anni, l’ho vista poco e ne ha sofferto. Una volta l’anno me la portavo a cena al Plaza di New York. Una sera mi dice: “Quanto ho sofferto della tua assenza, ma pensandoci bene ho sofferto di più per la presenza di mamma”.
Eppure sua madre è sempre stata generosissima, molto presente. Che rivincita spettacolosa, ho ordinato champagne». Ritiratasi dalle scene nel 2000, Winters ci abbandona il 14 gennaio di sei anni dopo in una clinica di Beverly Hills, a seguito di complicazioni dovute a un infarto. E se i ruoli impersonati di donna fragile circuita da assassini e malintenzionati sono elevati da nobile senso drammaturgico, preferiamo ricordarla con mannaia o mitra in mano mentre cerca di «far fuori» la sua prossima vittima.
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