Sebbene ascrivibile al realismo magico o al fantastico più nero, l’ultimo e assai celebrato romanzo di Shehan Karunatilaka,  Le sette lune di Maali Almeida (traduzione di Silvia Castoldi, Fazi, € 19, pp. 459) si gioverebbe di un realistico esergo, prelevato dalle osservazioni di Ferdinando Scianna, che così conclude il suo saggio Etica e fotogiornalismo: «la fotografia ci mostra il morto, raramente la causa della morte e, quanto all’assassino, quello ce lo mettiamo quasi sempre noi».  Le sette lune è, infatti, la storia di un fotoreporter trucidato nel 1990 in Sri Lanka durante la guerra civile, che dopo la morte approda a una sorta di Purgatorio simile a un ufficio delle entrate, affollato di raccapriccianti fantasmi. Ha una settimana (sette lune) di tempo per scoprire chi l’ha ucciso, mettere in salvo le fotografie che denunciano gli orribili misfatti del potere, e guadagnarsi con ciò l’entrata nel regno della Luce, oppure la rinascita in un’altra forma dell’esistenza.

Le fotografie di Maali Almeida sono il collante che unisce le varie anime di un romanzo difficilmente riconducibile a un qualche genere, impedendo che la fantasmagoria infera – in cui si mescolano horror, splatter, giallo, narrazione di guerra, storie di fantasmi, satira politica e avventure gay – travolga la  sua forte componente di denuncia.

Ridotto a spirito senza corpo, Maali Almeida è stato un fotoreporter free lance, facilitatore di operazioni (fixer) in zona di guerra, giocatore d’azzardo e omosessuale non dichiarato, nonché estremamente promiscuo: ora deve indurre i suoi coinquilini – una ragazza innamorata di lui e il cugino di lei, di cui Maali è amante – a trovare e diffondere le foto in grado di far cadere il governo, da lui nascoste in un luogo segreto. In apertura del testo, un dettagliato elenco dei fantasmi e degli spiriti che, a vario titolo, appaiono nel romanzo, dà l’idea di quanti e quali siano i demoni dai quali Maali deve guardarsi, impedendo che lo ostacolino. Per la maggior parte vittime della guerra civile, gli spiriti sono raggelati nell’aspetto che avevano al momento della morte: squartati, decapitati, lividi per i pestaggi, bluastri per il soffocamento. D’altra parte, la realtà in cui si agitano i viventi non è meno inquietante, traversata com’è dal continuo timore di un arresto incombente o di un rapimento ad opera di fazioni politiche avverse, cui regolarmente fanno seguito tortura e assassinio: una lista delle fazioni belligeranti, chiosata dall’ammonimento: «Non cercare i buoni perché non ce ne sono», appare all’inizio del romanzo, sotto forma di promemoria, a beneficio di un giornalista americano.

Tutto il romanzo è raccontato da personaggi defunti, perché – scrive Shehan Karunatilaka – «gli unici che sanno la verità sulla guerra civile di Sri Lanka sono i morti, e allora tanto vale lasciarli raccontare la loro storia».

L’atmosfera dell’aldilà evocata, in cui compaiono anche spiriti reperibili nelle leggende e nelle mitologie autoctone, ha svariati echi in altri testi provenienti da varie geografie letterarie, ambientati in un oltretomba ricco di elementi mutuati dal folclore locale. Qui, raccontata in seconda persona singolare, l’intricata vicenda favorisce una sorta di distacco dai fatti, mentre  ne enfatizza l’ambiguità: la voce narrante che, come in una cronaca diretta, scandisce ogni fase delle «sette lune», si rivolge con il tu ad Almeida, da una parte smentendo l’assenza di qualsivoglia Entità suprema proclamata dai defunti nel mondo infero, dall’altra enfatizzando l’idea che – scrive Karunatilaka  – l’universo sia dotato di «un meccanismo di autocorrezione. Ma non è Dio, né Shiva, né il karma… Siamo noi».

Per Maali, un uomo letteralmente diviso, ovvero separato definitivamente dal suo corpo, che giace smembrato in fondo a un lago, il suo «io» è più che mai un altro, cui rivolgersi dandogli sardonicamente del tu. Proprio questo racconto alla seconda persona, cui si aggiunge la struttura paratattica del romanzo,  basterebbe a smentire il parallelo con Salman Rushdie, avanzato da molti recensori inglesi e americani: a dispetto del fatto che sono estranei a Karunatilaka sia i barocchismi, sia le contorsioni discorsive, sia l’infinito susseguirsi di subordinate e gli audaci neologismi che caratterizzano la narrativa dello sfortunato scrittore angloindiano.

La novità delle Sette lune, probabilmente responsabile della assegnazione del Booker Prize 2022, sta piuttosto nell’abilità con cui Karunatilaka adotta lo stesso linguaggio piano, colloquiale e privo di abbellimenti sia per evocare demoni, fantasmi e spiriti dell’oltretomba, sia per documentare le atrocità della guerra civile, sia per indugiare sul triangolo sentimentale al centro del romanzo, sia per rendere la lotta contro il tempo di Maali, che a ogni costo persegue l’obiettivo di salvare le proprie foto.

Gli srilankesi hanno riconosciuto in Maali Almeida la figura di Richard De Zoysa, noto giornalista, attivista, poeta e attore, rapito e assassinato a soli trentun anni nel 1990. È sua, di certo non a caso, la prima epigrafe del romanzo: «Padre, perdona loro, / perché io non lo farò mai». Nel romanzo di Karunatilaka, tuttavia, il giovane giornalista si trasforma in fotografo: con una macchina ormai inutilizzabile, sporca di fango e del suo sangue, Maali  continua anche nell’aldilà a scattare immagini che sembrerebbero impossibili, convinto che «se hai una macchina fotografica, non esistono posti sbagliati». La sua figura ricorda la sintesi del fotografo offerta da John Berger, un «occhio che rifiuta di chiudersi»; e la sua morale è stretta in questa frase: «Ho bisogno che il mondo veda quello che ho visto io».

I sette giorni a sua disposizione per far conoscere gli orrori della guerra civile rimandano al tempo troppo breve che corre tra la memoria e la cancellazione del passato, tra il fatto e l’amnesia storica. «A ogni anima sono concesse sette lune» –  spiega il fantasma di un dirigente marxista. «Per ricordare le vite passate. E poi dimenticare».