«La mia compiacenza, la codipendenza e la mia mancanza di confini, che in superficie sembrano così altruistiche, premurose e umili, in realtà esprimono controllo, necessità egoistiche ed esigenze emotive». La giovane donna che consegna questi suoi pensieri è la protagonista di Ti seguo (Atlantide, pp. 224, euro 17,50, traduzione di Clara Nubile), l’esordio di Sheena Patel, 34 anni, nata e cresciuta nel nord-ovest di Londra e che oggi è ospite a Roma nell’ambito di Più libri più liberi per parlare del suo libro (alle 15 in sala Polaris; con l’autrice ci saranno Paola De Angelis e Gaja Cenciarelli).

La configurazione ossessiva descritta fin nei minimi particolari è già comprensibile dal titolo originale di un ibrido letterario tra il memoir, la poesia, il diario e il frammento critico. I’m a fan  gioca infatti sul doppio passo di incantamento ed esaltazione che un certo fanatismo contemporaneo sostanzia. «L’ossessione e la fandom (l’atto di essere fan, ndr) determinano una corrente sotterranea che permea le nostre vite», dice Patel raggiunta per qualche domanda. «Questa struttura da musica pop si è infiltrata nel nostro sistema politico – prosegue la scrittrice – quindi volevo tenere insieme questi elementi: l’amore indisponibile e i sistemi politici che si sono spinti all’estremo».

ORIGINI INDIANE, sottoprecaria in una capitale inglese piuttosto ostile e desolata, la voce narrante di Ti seguo non ha un nome proprio come non lo possiede il suo amante chiamato «l’uomo con cui voglio stare» e colei con cui lui ha una relazione ovvero «la donna da cui sono ossessionata». Lo sfondo di questo teatro clandestino è puntellato da screenshot dei profili social, ultimi accessi, spunte blu di whatsapp e aggiornamenti di status. Scorre, davanti alla ragazza che racconta con dovizia, la frustrazione che non si placa e fa da contrappunto a un disamore dilagante. Nessuna vittimizzazione tuttavia, chi agisce l’ossessione ha una parte attiva che emerge con veemenza, la assume infatti come reazione aggressiva che possa procurarle godimento subitaneo, riparazione, una sorta di risarcimento che affonda le radici in un ristagno sentimentale. E l’assedio si attraversa con un obiettivo preciso: essere vista anche lei, reclamare lo sguardo dell’altro come premio, trofeo nonostante una quotidianità creduta immeritevole di cura.

«La mia protagonista, precisa Patel, potrebbe essere chiunque di noi. L’algoritmo è dentro di lei come è dentro tutti noi. Volevo scrivere la storia dell’ombra della rete, cosa sarebbe se l’appetito per la conoscenza ci consumasse completamente, fino a che punto potrei portare questo personaggio e cosa potrei fare con lei. Cosa abbiamo dato via e cosa ci interessa?»
Bianco e attempato, ricco e di successo, l’oggetto della fissazione è mostrato come il prototipo del falsario tenebroso che mantiene tutto a disposizione: moglie, amanti e follower che lo venerano. Ciò che vuole ottenere è di non morire, essere inattaccabile nel suo privilegio. Per farlo costruisce una reputazione solida, soprattutto via social.
È lì che, tra le altre cose, rivende al pubblico poltiglie di «politicamente corretto» quando per esempio partecipa pubblicamente a panel di sole donne, tenendo conto dei guadagni del femminismo o dell’emancipazione. Maneggia i trucchi della perfetta «inclusione» mentre, nell’invisibile del suo privato, ignora sfrutta e rapina i bisogni altrui. Per primi quelli delle donne che affama e di cui si nutre.

TRISTE, come solo i grandi bluff sanno essere, non ha argomenti originali tranne la luce riflessa che gli deriva dal suo essere un intellettuale accreditato. Altrettanto dicasi della influencer sua favorita con cui da anni ha un rapporto elettivo: ottima descrizione del cliché automoderato e pseduo-adeolescenziale da «acchiappalike».
Sheena Patel, che da cinque anni fa parte del collettivo «4 brown girls who write» con le scrittrici e poete Roshni Goyate, Sharan Hunjan e Sunnah Khan, sceglie un linguaggio crudo e diretto, senza fronzoli o tentativi di ingraziarsi chi legge. Tanto da essere disturbante. È una interferenza sensoriale il capogiro in cui cataloga circostanze e percorsi urbani di totale accerchiamento. Lo stile che predilige è una contaminazione spuria ed effimera mutuata dal cinema e dalla televisione – per cui lavora. All’allusione o alla metafora preferisce dunque la consistenza dei corpi che si sfaldano per poi ricomporsi solo nell’ottenimento di ciò che vogliono.

Ma cosa pretendono questi corpi? E perché proprio in questa richiesta di sovraesposizione si dovrebbero definire gli orli di una esistenza dotata di senso visto che, al desiderio e al piacere, sostituisce consolazioni spicce e senza futuro? Le risposte sono molteplici e l’aspetto psichico che le produce, sotteso a Ti seguo, poggia su una materialità precisa, che anzitutto non sfugge alla differenza di classe: «Le narrazioni per noi disponibili si basano sulle nostre identità, così come le storie che sono approvate dal mercato e dai social media – specifica Patel. Hanno in sé una familiarità ottundente. Noi immigrati di seconda generazione abbiamo il privilegio di poterci autorealizzare. Facciamo sculture, dirigiamo film, scriviamo commedie, romanzi, memoir e poesie sul fatto di non avere una casa, di cercare una casa, di vivere tra due tipi di casa, sul cos’è casa, su quanto ci sentiamo tutti male, sulle relazioni miste che intraprendiamo con i bianchi, perdendo la nostra lingua che appartiene a una cultura a cui siamo rimasti aggrappati con tenacia, tanto per cominciare. Per un algoritmo che non abbiamo ideato noi, per una piattaforma che non è stata progettata affinché potessimo attirare l’attenzione di un sistema culturale che ci esclude, ci facciamo ulteriormente del male inscenando la nostra Alterità, diventiamo Altri da noi stessi».

ACCOMPAGNATA dal lavoro di registi come Adam Curtis e Raoul Peck, insieme a quello dell’artista Martine Syms e alle scritture di Sheila Heti e Cathy Park Hong, Sheena Patel tiene tra le sue mani altre voci del presente perché è quest’ultimo che va decifrato. Al pari di Sally Rooney o Zadie Smith, il segno del contemporaneo è espresso come specchio di una morte già avvenuta che dia parola al vivere qui e ora. Riflessione post-pandemica, nel caso di Ti seguo, il punto centrale è la solitudine tutta umana alla prova di un sistema di consumo ormai vocato alla persecuzione fanatica.
In questa direzione vanno per esempio collocati i brevi commenti della protagonista su chi ha sostenuto l’elezione di Trump,, nominando Qanon o la claustrofobia schiacciante di metropoli in cui basta perdere il proprio smartphone per essere cacciate dal consesso civile oltre che lavorativo.

«Essere fan» assume dunque un tenore ancora più livido dopo l’esperienza degli ultimi anni, significa affrontare la propria fragilità come fosse una disputa tra chi vince e chi perde. Ogni tanto, da questo malessere, si emette qualche brillio meccanico-fisiologico per decidere non di farsi toccare, bensì di farsi invadere. E insieme invasarsi, in corpi altrui. Quelli dei capi, dei padroni non uccidibili. A essere rifiutati sono sempre gli ultimi, quelli che erano ai margini già prima. E senza una grande prospettiva di rivolta. Soprattutto di questa solitudine verticale parla Sheena Patel, di un’allucinata miseria in cui si avanza, immaginando «guide» che amplificano il baratro. Pezzo per pezzo.

Gettando addirittura la propria intimità e quella dell’incontro con l’altro, la gioia di una delicatezza non riproducibile in quell’accadere, al frastuono indistinguibile del profitto. In cui ci si «seguirà» pure ma chiunque va via. Una interessante parabola mortifera neoliberista delle relazioni dove a imperare sono sparizione e abbandono, a fronte di un desiderio inesprimibile di prossimità, di essere senzienti e alleati al mondo nel contatto di ciò che è vivente. Dove dirsi un giorno: «Ti riconosco. E non ho paura di restare». È una cosa semplice, politica e sentimentale.