Sharing economy, piccole piattaforme digitali crescono in Italia
Intervista Ivana Pais (Università Cattolica di Milano), coautrice della mappatura delle piattaforme di condivisione in Italia nel 2016. In un anno sono passate da 118 a 138 e si affermano nelle nicchie. Viene richiesta una legge dedicata, un regime fiscale agevolato, la distinzione tra operatori professionali e non, l’accesso ai capitali di rischio. Il futuro non è solo impresa, ma la cooperazione: "L'Italia mi fa rabbia: ha una forte tradizione cooperativa e non riesce a superare la barriera tra mondo cooperativo tradizionale e quello digitale. L'esempio positivo è quello di Smart in Belgio che ha costruito una cooperativa con i ciclo-fattorini che consegnano pasti a domicilio"
Intervista Ivana Pais (Università Cattolica di Milano), coautrice della mappatura delle piattaforme di condivisione in Italia nel 2016. In un anno sono passate da 118 a 138 e si affermano nelle nicchie. Viene richiesta una legge dedicata, un regime fiscale agevolato, la distinzione tra operatori professionali e non, l’accesso ai capitali di rischio. Il futuro non è solo impresa, ma la cooperazione: "L'Italia mi fa rabbia: ha una forte tradizione cooperativa e non riesce a superare la barriera tra mondo cooperativo tradizionale e quello digitale. L'esempio positivo è quello di Smart in Belgio che ha costruito una cooperativa con i ciclo-fattorini che consegnano pasti a domicilio"
La terza mappatura italiana delle piattaforme della sharing economy sarà presentata a Sharitaly oggi e domani a Base Milano, in via Bergognone 34 a Milano.
La ricerca, curata da Marta Mainieri di Collaboriamo e Ivana Pais, docente di sociologia economica all’università Cattolica, descrive un panorama costituito da piccole piattaforme in crescita: in un anno sono passate da 118 a 138, 208 contando quelle di crowdfunding.
I settori dove l’economia della condivisione dei beni e dei servizi – da distinguere dalla On demand economy e dalla Gig economy alla Foodora o Uber – sono quelli del trasporto e dei servizi alla persona.
Sono 25 le piattaforme nel settore del Car pooling, Ridesharing, del Car sharing peer to peer o del trasporto pacchi. Le 23 piattaforme di servizi si occupano di Babysitting, dog sitter, e ce ne sono alcune che si occupano di banche del tempo.
Nel 2015 il 20% delle piattaforme raggiungeva più di 30 mila utenti, ora sono il 31%.
Più della metà delle piattaforme si trova nel Nord del paese, l’83% sono iscritte al registro delle imprese, il 38% di queste sono Srl. La ricerca traccia anche il profilo socio-professionale dei fondatori: l’82% sono uomini, il 60% è laureato prevalentemente in economia o ingegneria, molti hanno precedenti esperienze imprenditoriali, il 34% possiede aziende in altri settori. Poco meno della metà (49%) guadagna sul transato, cioé sulla relazione tra le persone che condividono un bene o un servizio. La modalità di scambio prevalente è con il denaro (51%), meno con il credito o lo scambio del tempo.
Un’attività basata sulla relazione tra persone ha bisogno della diffusione della cultura della condivisione. E’ un elemento essenziale per lo sviluppo del settore, sostiene il 64% degli intervistati. Necessarie anche altre misure come l’approvazione di una legge dedicata, insieme a un regime fiscale agevolato, alla distinzione tra operatori professionali e non, l’accesso ai capitali di rischio.
Provvedimenti prefigurati da uno Sharing Economy Act in discussione in parlamento, mentre è attesa per il 14 dicembre una relazione del parlamento europeo sulle linee guida che la Commissione dovrebbe emanare.
La ricerca conferma le dimensioni ristrette della sharing economy italiana e la sua dipendenza dai fondi personali, più che da venture capital.
A Ivana Pais, coautrice della ricerca, chiediamo com’è cambiata la sharing economy dall’inizio della crisi 2007-2008.
“Fino a poco tempo fa abbiamo osservato che quando una multinazionale è arrivata nel nostro paese, le piattaforme locali che non reggevano la competizione e chiudevano – risponde – Oggi ho la sensazione che siamo in una fase di rinascita. I nuovi modelli si differenziano dalla grande piattaforma già consolidata. Nella mobilità ad esempio: quando in Italia è arrivata Blablacar, le altre piattaforme hanno chiuso. Oggi, invece, nascono altre piattaforme che si differenziano e cercano una nicchia”.
Quali?
Icarry, ad esempio. E’ specializzata nel trasporto oggetti. Come Blablacar trasporta persone, Icarry permette a persone che viaggiano in auto sullo stesso tragitto di portare un pacco.
Oppure Auting che permette il car sharing peer to peer: la macchina viene affittata a breve termine a chi ne ha bisogno.
Esempi così li vediamo in tutti i settori. Queste iniziative si propongono con la loro specificità in un mercato fertile e si innestano in un terreno arato dalla grande piattaforma. E’ più facile che iniziare da zero, come su un prato verde.
Un esempio per un altro settore?
Quello della cultura. Per l’assenza di grandi piattaforme, siamo in fase di esplosione della creatività. A Sharitaly abbiamo invitato My Home Gallery, una piattaforma che permette agli artisti di aprire agli ospiti appassionati d’arte i propri studi. L’artista può organizzare una visita guidata della propria città.
Come definire questo modello dal punto di vista occupazionale: è un’autoimpresa? Un autoimpiego?
Sono caduti i confini tra produttore e consumatore. Anche le dinamiche più consolidate stanno venendo meno. Il lavoratore ricostruisce direttamente una filiera: il pubblico, gli obiettivi della propria attività sia artistica che economica, sociale e individuale. Così facendo arriva a stabilire spazi aperti dove co-creare con l’altro, utilizzando la tecnologia.
Dalla ricerca risulta che la maggioranza delle piattaforme sono a Nord. Per quale ragione?
Queste iniziative sono lo specchio del nostro paese. I sistemi più dinamici sono i primi a creare queste esperienze. Quando però un territorio periferico intercetta queste dinamiche, trae maggiori vantaggi rispetto ai territori più strutturati. Un caso molto bello è quello di Casa Netural a Matera.
Un’esperienza di coworking e di innovazione sociale in senso lato che sta rigenerando un territorio e l’economia locale. Più embrionale e meno conosciuta, è il caso di Nughedu Santa Vittoria in Sardegna. Questa estate sono state realizzate una serie di iniziative di ospitalità diffusa appoggiandosi sulla piattaforma Gnammo. È un paese non toccato dalla tratte turistiche tradizionali, i giovani se ne vanno. E’ stato deciso di organizzare una cena preparata dalle signore del paese sulla base delle ricette tradizionali rielaborate dai grandi cuochi. Grazie alla rete sono state messe in moto dinamiche che possono trasformarsi in iniziative più strutturate. Gli investimenti sono bassi, vale la pena di provarci.
Dalle interviste risulta che gli operatori ritengono necessaria la distinzione tra professionisti e non. Perché?
È una proposta contenuta nel disegno di legge sulla sharing economy. È il punto che ha trovato più consensi. È una buona strada quella di individuare una soglia che permette di distinguere tra operatori professionali e chi fa un’esperienza non professionale di condivisione. Si fissa una soglia di reddito sopra la quale, se l’attività diventa ricorrente e la fonte principale di reddito, risponde ai criteri di professionalità seguiti dagli operatori professionali. Altrimenti diventa una forma di concorrenza sleale.
La maggior parte delle piattaforme sono società Srl, dunque imprese. Le dimensioni della sharing economy è tuttavia ristretta. Netta è la dipendenza dai fondi personali, più che da venture capital. Come mai?
E’ un dato coerente con quello delle start up in Italia. Il problema più grave è quello dell’accesso al credito. Questo spiega l’alto numero di piattaforme presenti in italia. Sono iniziative che possono essere gestite con risorse in propri. Quando iniziano a crescere si trovano in un mercato dove competono con piattaforme che hanno accesso a venture capital, dunque a finanziamenti importanti.
In molti casi le piattaforme non riescono a stare sul mercato. Per aprire una piattaforma bastano pochi fondi. Per farla conoscere e farla funzionare ne servono molti altri. E qui si misura la tenuta delle nostre piattaforme. Dai dati sul numero utenti e sul numero delle transazioni risulta che sono poche a funzionare veramente.
È una situazione solo italiana?
Molto italiana, ma anche europea. All’estero qualche eccezione c’è in Francia dove hanno Blablacar. All’estero esistono campioni nazionali, in Italia no.
Non abbiamo un modello di esportazione anche perché i mercati sono tutti nazionali. Abbiamo tuttavia esperienze interessanti di piattaforme locali che si innestano sui territori e costruiscono piattaforme che rispondono alle specificità del territorio, ma restano locali.
Qual è la differenza con la sharing economy degli Stati Uniti?
Sono modelli completamente diversi. E c’è un dato strutturale. Gli statunitensi hanno un mercato domestico gigantesco che permette di scalare restando nei loro confini e nei loro leggi, mantenendo la stessa lingua. Quando escono sono già grandi e possono imporre le logiche che hanno incorporato nelle loro piattaforme in contesti diversi.
La difficoltà della on-demand economy iniziano quando dalla Silicon valley la esportano all’estero dove trova un quadro legale molto diverso. Viceversa, una piattaforma italiana parte da un mercato domestico piccolissimo, e poi deve fare il salto quando non è ancora abbastanza forte per reggerlo. Per questo penso che iniziative regolative di supporto a livello europeo sono importantissime. Finché non si entra in una logica di mercato unico europeo sarà difficile realizzarle.
A che punto sono le linee guida che la Commissione Ue aveva deciso di emanare?
La Commissione in giugno ha fatto il documento in linea con la proposta italiana. Ci sta lavorando il parlamento europeo e la consegna della sua relazione sull’economia collaborativa è prevista il 14 dicembre. La relazione sarà inviata alla Commissione che alla fine emanerà le linee guida.
La vertenza dei ciclo fattorini foodora ha fatto emergere la differenza tra gig e sharing economy. In cosa consiste?
Sono manifestazioni della App economy. Tutta l’economia digitale passa dalle app. La Gig-Economy è la sua prima manifestazione e sfrutta le potenzialità delle tecnologie per favorire una diversa organizzazione del lavoro. Con alcuni elementi positivi: il fatto che il lavoratore possa decidere quando lavorare e no è una libertà consentita dalla tecnologie che non butterei via.Il potere resta tuttavia in mano alla piattaforma.
Nella Sharing economy, invece, la piattaforma abilita le relazioni che sono in capo ai pari. Se il prezzo del servizio scambiato è stabilito dalla piattaforma allora non stiamo parlando più di economia collaborativa. Diversa è la piattaforma che attiva economicamente le persone secondo regole da loro stabilite. Le piattaforme della Gig economy hanno bisogno di grandi numeri. All’inizio hanno condizioni di mercato molto favorevoli. Una volta ottenuti volumi importanti e raggiunto il monopolio del settore spesso cambiano le regole.
È quello che assistiamo in questo momento. Fino a pochi mesi fa nessuno si lamentava. Tutti erano contenti. I problemi sono arrivati quando le piattaforme hanno iniziato a cambiare le regole. Le persone che ci lavorano, ma anche i clienti, sono penalizzati. Ai primi si abbassano i compensi, ai secondi si aumenta il prezzo del servizio. Le piattaforme scommettono sul fatto che sono monopolisti e possono permettersi questi cambiamenti. In fondo tutta l’economia digitale funziona così. A partire da Amazon.
Il futuro della Sharing economy è quella di creare imprese oppure c’è spazio per piattaforme cooperative, come Ecsa, Stocksy, Fair Mondo, Loomio e, da ultima Smart in Belgio che creerà una cooperativa insieme ai ciclofattorini di Take Eat Easy?
Quella di Smart in Belgio è un caso meraviglioso. E’ importante iniziare a costruire modelli di questo tipo. Servono per riprodurre esempi positivi in tutto il mondo. Nella cooperazione di piattaforma [Platform cooperativism] ci sono idee bellissime, che si fanno fatica a mettere in pratica. Mi sembra che ci sia più interesse da parte dei teorici, che nella realtà.
L’Italia mi fa rabbia: ha una forte tradizione cooperativa e non riesce a superare la barriera tra mondo cooperativo tradizionale e quello digitale. Dall’altro lato, i fondatori di piattaforme non prendono in considerazione la cooperazione. C’è una barriera culturale tra i due mondi. C’è un mondo che resiste al digitale perché pensa che il virtuale sia contro il reale e non riesce a vederlo invece come un canale complementare rispetto ad altri.
C’è qualcuno che però ha intuito le potenzialità della Sharing economy e la considera come l’occasione per recuperare lo spirito delle origini delle cooperative: mutuo aiuto e rapporto tra i pari, un approccio che le cooperative burocratizzate hanno spesso perso, trasformandosi in erogatrici di servizi pur mantenendo una governance di cooperativa.
Ci sono varie sperimentazioni in atto, anche nel mondo delle cooperative, ma sono ancora pochi i risultati. Ma visto che stanno diminuendo i fondi pubblici, è possibile che una parte di questo mondo sarà costretto a rimettere in discussione il proprio modello. La Sharing economy e la cooperazione su piattaforma digitale potrebbero essere una soluzione.
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