Cultura

Shoah, una memoria continentale in cerca di condivisione

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Intervista Un'intervista con lo storico Guri Schwarz. Dalla conferenza di Stoccolma alla scelta istituzionale della «Giornata della memoria». Un convegno internazionale a Milano

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 14 aprile 2015

Guri Schwarz è un giovane storico che da sempre ha concentrato la sua attività di ricerca sul rapporto tra la memoria della Shoah e la memoria collettiva sul dascismo, il nazismo e la seconda guerra mondiale. Autore di numerosi saggi, ta i quali i After Mussolini: Jewish Life and Jewish Memories in Post-Fascist Italy (Vallentine Mitchell), Tu mi devi seppllir. Riti funebri e culto nazionale alle origini della repubblica (Utet), nonche curatore dell’edizione dei diari di Emanuele Artom Diari di un partigiano ebreo. Gennaio 1940 – Febbraio 1944 (Bollati Boringhieri). Ha scritto anche il saggio Attentato alla sinagoga. Roma, 9 ottobre 1982. Il conflitto israelo-palestinese e l’Italia (Viella).

Questo di Milano è il primo convegno europeo dedicato a un decennio di Giornate della memoria. Da dove è venuta questa esigenza?

L’idea del convegno nasce da una constatazione e da una domanda. Da una lato, la memoria della Shoah è uno dei pochi riferimenti storico-simbolici condivisi dai paesi dell’Ue e uno dei pochi temi su cui l’Unione si è mossa con decisione per promuovere qualcosa che assomigli a una «religione civile». Dall’altro, mancano ancora analisi adeguate di tipo transnazionale per fare un bilancio delle iniziative della memoria: per leggerle cioè sia dentro le specificità nazionali sia all’interno di un quadro propriamente europeo. Eppure, questo è un tema europeo, lo è storicamente, politicamente e istituzionalmente. Le tre dimensioni sono al centro del convegno, che intende analizzare tale complessità presentando diversi casi nazionali: dai paesi fondatori a quelli di più recente ingresso nell’Unione.

É convinzione diffusa che nel dopoguerra la memoria dello sterminio abbia faticato a trovare riscontro nelle società europee, anche nel campo dell’antifascismo: basti pensare alle complesse sorti editoriali di «Se questo è un uomo», rifiutato da Einaudi in prima battuta. Come spiega questo fenomeno?

Il caso Primo Levi non è emblematico e diversi studi recenti hanno contestato quello che è chiamato il «mito del silenzio». Ciò che è cambiato, soprattutto dalla fine degli anni Settanta, sono il modo in cui lo sterminio veniva letto e il significato che gli veniva attribuito. Per alcuni decenni, a dominare le narrazioni collettive sono state retoriche di tipo redentivo che celebravano la lotta al fascismo e al nazismo. L’enfasi fu posta dunque sul valore rigenerante della Resistenza. La tragedia ebraica non veniva rimossa, ma il dramma delle vittime innocenti – perseguitate per via di una classificazione razziale – assumeva una valenza che possiamo dire secondaria.

Successivamente, si è consumata una crisi della politica e della militanza che ha finito con lo svuotare e impoverire le narrazioni di tipo patriottico e antifascista. Con la crisi della politica, che va letta innanzitutto come crisi dell’idea di progresso e di rivoluzione, ha preso piede un altro tipo di sensibilità. In quel nuovo quadro la figura del perseguitato razziale – vittima «pura» – ha acquisito crescente visibilità e rilievo.

Un momento di passaggio è stata la caduta dell’Unione sovietica. Perché?

Sicuramente la fine della guerra fredda rappresenta una svolta di enorme portata simbolica e storica. In qualche modo accelera ed esaspera una tendenza al disincanto già presente e in corso di maturazione da tempo. Poi ci sono anche altri fattori: la riunificazione tedesca, per esempio. Proprio nella fase in cui la nuova Germania si presentava come potenza dominante in Europa, il tema della Shoah, che è poi una declinazione del tema della «colpa» tedesca, acquisiva una forza crescente. All’interno del mondo politico e culturale tedesco il dibattito sulle responsabilità del passato è stato intenso e vivace: il passato come inevitabile specchio e spettro per il presente.

Arriviamo alla conferenza internazionale di Stoccolma del 2000 e all’istituzione delle giornate di commemorazione (Francia nel 1993, Germania nel 1996, e poi dal 2000 in avanti negli altri paesi dell’UE). Quale è stato il ruolo di quell’evento?

La conferenza di Stoccolma ha costituito una tappa fondamentale del processo di istituzionalizzazione della memoria della Shoah. È stata il punto di arrivo di processi di più lunga durata e la risposta politica ad alcune contingenze. In primo luogo, c’era lo spettro della guerra civile Jugoslava che aveva portato sulla scena la questione della pulizia etnica; poi c’era stata l’ondata d’inchieste sui processi di restituzione dei beni dei perseguitati razziali durante la seconda guerra mondiale. Quelle ricerche rispondevano all’esigenza di fare chiarezza al bisogno di arginare alcune azioni legali avviate negli Usa.

In questo scenario, nel 1998 il governo svedese promuove la nascita di un ente di coordinamento intergovernaivo per la memoria e l’educazione e la successiva conferenza intergovernativa di Stoccolma. Poco dopo il Parlamento Europeo riprende gli auspici emersi nella conferenza e rilancia con una risoluzione l’idea di una giornata della memoria, indicando la data del 27 gennaio, incoraggiando tutti i paesi ad adottare iniziative in tal senso. Da quel momento in poi è stato chiaro che l’introduzione di tale ricorrenza diventava uno dei «biglietti d’ingresso» nell’Ue.

Come variano i modi adottati dai diversi paesi europei nella gestione della memoria dell’Olocausto?

Inevitabilmente, al di là delle spinte all’uniformazione, le differenze nazionali ci sono. Alcuni paesi hanno adottato date diverse dal 27 gennaio e ciascuno rideclina quella memoria rispetto alla propria storia e alle dinamiche interne. Nel caso Italiano la normativa prevede che sia ricordata la persecuzione antiebraica, ma anche la deportazione politica e quella dei militari. In Germania si parla più in generale dei crimini del nazismo, in Francia l’enfasi è solo ed esclusivamente sulla Shoah. A ciò si aggiunga che – con la rilevante eccezione francese – l’introduzione della ricorrenza non ha stimolato una piena presa di coscienza e un confronto sincero con quel passato. L’Italia, per esempio, non ha ancora visto i suoi massimi rappresentanti istituzionali assumersi la responsabilità della campagna razziale fascista e per la cooperazione attiva alle deportazioni. Nei paesi dell’Est Europa poi la questione è ancora più complessa. Lì il confronto con i crimini nazisti è reso ancor più problematico dall’esigenza di fare i conti con quelli del comunismo.

Dal programma dei lavori del convegno milanese emerge un certa criticità nei confronti dell’impostazione attuale del «Giorno della memoria» da parte dell’Unione europea. Come è possibile perpetuare il ricordo senza cadere nelle trappole della politica della commemorazione?

Storicizzare significa per forza di cose demistificare e questo comporta inevitabili considerazioni critiche sulle retoriche e i rituali della commemorazione in oggetto. In un saggio del 2009 che meriterebbe di essere tradotto, il sociologo Jeffrey Alexander ha osservato come intorno alla memoria Shoah si declini il fondamento morale dell’Occidente. Essa cioè diviene un punto di riferimento per la difesa dei diritti umani, per la lotta contro pulizie etniche e nuovi genocidi, o un veicolo per un’educazione all’antirazzismo. Non sempre però i risultati corrispondono alle intenzioni: alcuni hanno osservato che l’ipertrofia delle retoriche commemorative può produrre un senso di rifiuto, un effetto boomerang. Nonostante la celebrazione del 27 gennaio, i sentimenti razzisti e la paura del diverso non sono calati, anzi assistiamo in tutta l’Ue a una crescita delle destre nazionaliste e intolleranti. Anche per questo vale la pena riflettere sulle politiche della memoria intraprese fino a ora. Dobbiamo ragionare laicamente su questi temi, senza timori e preclusioni.

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