In Alice nel paese delle meraviglie il Re dice al coniglio: Sarebbe una bella idea iniziare dall’inizio. Il volume di Michele Ciliberto, Shakespeare. Il male, il potere, la magia (pp. 256, euro 20,00) fa appunto parte di una nuova collana, da lui avviata per le Edizioni della Normale, dal titolo «Incipit». Un Incipit carico di molti significati, segno di una collaborazione anche editoriale tra importanti istituti superiori di ricerca (Scuola Normale di Pisa, Istituto italiano di studi storici, Istituto nazionale di studi sul Rinascimento, Fondazioni Feltrinelli, Gramsci e Collegio San Carlo e Museo Galileo) e luogo di ospitalità per giovani ricercatori all’inizio della loro attività: un primo frutto sarà la pubblicazione dei «quadernucci» di Machiavelli scoperti nel 2020 dal giovane Daniele Conti. Ma Incipit anche in un terzo senso: dare avvio a una nuova riconsiderazione della cultura italiana, sottraendola a stereotipi. Tratto comune dei primi volumi della collana è infatti il riferimento a momenti rilevanti di essa, ma non nel loro isolamento, bensì nelle intersezioni con altre culture e altri momenti storici, secondo un movimento di volta in volta centripeto e centrifugo: la cultura italiana come uso del passato, ma anche nutrimento di altre culture europee e apertura a prospettive future. Così è per i volumi di Paolo Galluzzi, Galileo Rosmini Darwin. Triumviri del cattolicesimo riformatore (1870-1918) e di Biagio Di Giovanni, Dipingere la vita. Luca Giordano e Théodore Géricault.

Ma è naturalmente soprattutto nell’Umanesimo e nel Rinascimento italiani che si manifesta in maniera prepotente tale ritmo centripeto e centrifugo, facendo dell’Italia un crocevia per l’Europa. Da una parte un mondo capace di assorbire e fare propria le lezioni degli antichi Greci e Romani, dando luogo a nuovi sviluppi, e dall’altra il suo potere di alimentare aspetti e momenti cruciali della cultura europea. Questo punto emerge in maniera decisa nel volume di Ciliberto. Una volta Borges osservò: «Una curiosa convenzione ha stabilito che ciascuno dei paesi in cui la storia e i suoi eventi hanno fugacemente diviso il globo abbia il suo libro classico. L’Inghilterra ha scelto Shakespeare, il meno inglese degli scrittori inglesi (…) Messo a confronto con Wordsworth, con Samuel Johnson, con Chaucer è quasi uno straniero. L’Inghilterra è la patria dell’understatement, della reticenza bene educata; l’iperbole, l’eccesso e lo splendore sono tipici di Shakespeare».

Ciliberto si ferma in particolare sui testi shakespeariani intorno al 1603, in anni di crisi caratterizzati da sconvolgimenti politici e peste. Un clima analogo, a suo avviso, permea anche l’età umanistica in Italia, nello svolgimento di tematiche che si proiettano sino a Shakespeare. Ma questa operazione è resa possibile solo dall’emergere di un’immagine dell’Umanesimo e del Rinascimento italiani ben diversa dallo stereotipo tradizionale di età armoniosa e serena, impegnata nella costruzione di una concezione pienamente positiva dell’uomo quasi deus, sulla scorta di tradizioni neoplatoniche ed ermetiche. Già in volumi precedenti, sino al recente libro su Machiavelli, Ciliberto ha mostrato invece il volto drammatico di quest’epoca, caratterizzata dal senso della miseria della condizione umana, vicina alla condizione animale, sulla quale si getta uno sguardo disincantato in una presa d’atto realistica e proprio per questo tragica. È questo un tratto ravvisabile già in un autore particolarmente caro a Ciliberto, come del resto al suo maestro Eugenio Garin, Leon Battista Alberti. E qui non a caso sono altri gli antichi dai quali Alberti attinge e non solo Epicuro, soprattutto in opere quali il Theogenius e il Momus, la cui lunga ombra Ciliberto vede giustamente proiettarsi sino a Shakespeare.

Riporto solo qualche esempio, tra i molti da lui addotti, a conferma di questa funzione di cerniera tra culture. Nell’Amleto Guildenstern dice che «la sostanza dell’ambizione è meramente l’ombra di un sogno». Ciliberto richiama in parallelo un passo del Theogenius dove si ricorda «la sentenza di Pindaro l’omo essere quasi umbra d’un sogno». Ora nell’ottava Pitica di Pindaro, per indicare che l’uomo è creatura effimera l’espressione usata è «sogno di un’ombra». Rispetto a Pindaro quindi Alberti opera un rovesciamento nel rapporto ‘ombra-sogno’, ma è proprio questo rovesciamento che viene ripreso da Shakespeare, che probabilmente poteva leggere Alberti nell’edizione veneziana dei suoi Opuscoli morali del 1568, come Ciliberto prova mostrando altre convergenze concettuali. Anche col Momus di Alberti ricorrono sintonie profonde, in particolare col personaggio di Iago nell’Otello shakespeariano. Momo odia gli uomini, ritiene che non ci sia alcuna divinità che regga il mondo secondo un principio di giustizia, anzi gli dèi odiano gli uomini, per cui l’uomo deve farsi giustizia da sé e simulare. Il Momo albertiano «si esprime sempre in modo sprezzante nei confronti degli dei, imbelli, ridicoli, impotenti». Anche in questo caso si può constatare la ripresa e rielaborazione da parte di Alberti di una matrice classica. Si tratta di Luciano, e la cosa non deve stupire dato che egli godette in età umanistica e rinascimentale di una fortuna per noi oggi non facile da immaginare: basti pensare che alcuni dei suoi scritti furono tradotti in latino da personaggi del calibro di Erasmo e di Tommaso Moro.

Nel Concilio degli dèi Luciano mette appunto in scena Momo, la figura che rappresenta il biasimo, il quale induce Zeus a ordinare una revisione dei titoli accampati da vari dèi per una loro legittima presenza in cielo. Momo ne smaschera molti come abusivi, lo stesso Zeus. A maggior ragione questa valutazione negativa varrà per gli uomini. Ciliberto rileva come entrambi, il Momo albertiano e Iago, insultati, vogliano vendicarsi, ma ritengano necessario mettersi entrambi una maschera: «Il mondo è in crisi, tutti i valori sono capovolti, ed è proprio questo che permette il successo della dissimulazione». In vari scritti Ciliberto ha mostrato come l’età umanistica e rinascimentale sia epoca di contrasti in primo luogo tra essere e apparire e quindi tragicamente coinvolta nella continua necessità di simulare e dissimulare, condizione di sopravvivenza e di successo politico, ma tutt’altro che garantito. L’Otello, attraverso la figura di Iago, è una riflessione sul libero arbitrio e sulla volontà dell’uomo e sull’impotenza di entrambe, per cui «l’uomo è un giocattolo nelle mani della natura, degli dei», destinato alla sconfitta. Anche l’insistenza di Amleto sulla scissione fra destino e volontà si risolve nell’acquisizione che non c’è spazio per la nostra libertà, mentre Iago crede nel nostro arbitrio e nella possibilità della prassi, anche se ne sarà travolto. Emerge qui l’altro tema dell’uomo come giocattolo nelle mani della divinità, che ha un lontano antecedente nelle Leggi platoniche e si ripresenta anche in Shakespeare, per esempio nel Re Lear, ma anche in parole di Polonio nell’Amleto e nel Macbeth.

Il tema della dissimulazione viene però meno in altri personaggi shakespeariani, quali Timone o Coriolano, che la rifiutano per muoversi nello spazio della verità, non dell’apparenza, ma ciò si dimostra impossibile. Il Teogenio di Alberti è archetipo del Timone, che Shakespeare e Alberti incontrano nella Vita di Antonio di Plutarco, dove Antonio sceglie di vivere come Timone, lontano dal mondo che lo ha tradito e ingannato. Aggiungerei anche qui Luciano, autore di un Timone. Ciliberto rileva che il Timone è uno dei testi più intimamente albertiani di Shakespeare, per molte convergenze col Theogenius e col Momus, come le battute di Timone che «la bestia peggiore è migliore dell’uomo» e che «l’uomo è peste». Alberti aveva sviluppato il tema dell’odio degli dèi per gli uomini, mentre Timone prova odio per tutta la razza umana, ma con la differenza che Momo, come Iago, vuole vendicarsi degli uomini anche usando la dissimulazione, mentre Timone non vuole più avere a che fare con gli uomini, sceglie la strada opposta alla dissimulazione, cioè dire la verità: ossia che ente spregevole è l’uomo.

Ciliberto non manca tuttavia di sottolineare una differenza sostanziale tra Shakespeare e questo Rinascimento italiano, che pure ne alimenta il pensiero: in Shakespeare «manca la ‘funzione salvifica della prassi’, presente invece in Machiavelli, Bruno, Campanella, nella tensione tra disincanto e furore», anche se da ultimo Shakespeare, specie nella Tempesta, ricorre a una specie particolare di azione, quella magica, passando alla dimensione dell’utopia, del sogno come strumento per trasformare uomo e mondo.

Il libro si conclude con un ampio capitolo, intitolato Postilla, su Verdi, Manzoni e Shakespeare, ma in realtà non è una postilla, bensì parte integrante di quel ritmo di lunga durata di intrecci tra culture, fatti di continuità e differenze, che il saggio di Ciliberto ha così felicemente ricostruito.