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Shahrbanoo Sadat, in Afghanistan oggi non c’è posto per le donne

Shahrbanoo Sadat, in Afghanistan oggi non c’è posto per le donne

Intervista La fuga da Kabul, i media Usa, la libertà creativa, una conversazione con la regista afghana ospite del festival di Villa Medici. Insieme a molta parte della sua famiglia è ora rifugiata a Amburgo

Pubblicato circa 3 anni faEdizione del 24 settembre 2021

Ci sono volute 72 ore a Shahrbanoo Sadat e alla sua famiglia per entrare nell’areoporto di Kabul, 72 ore da quando tutti insieme – una ventina di persone – hanno lasciato il suo appartamento prendendo con sé solo poche cose, del cibo, qualche vestito. Era il 20 agosto, i talebani erano da pochi giorni entrati nella capitale, la sua casa tra quella di tutti era la più vicina allo scalo: «Se fossimo stati da un’altra parte muoversi sarebbe diventato impossibile». Oggi, quando ci incontriamo a Roma nel corso del festival di Villa Medici, che si è concluso qualche giorno fa, sorride. Lei e i famigliari, una parte almeno perché il fratello è ancora nella capitale afghana come molti dei suoi amici, sono in Europa, a Amburgo dove ha deciso di vivere – «Avevo lì già la mia casa di produzione» spiega. Nei giorni prima della caduta del governo di Ghani stava preparando il suo prossimo film, insieme a lei infatti sono fuggiti anche alcuni componenti della troupe.
In una intervista a «Screen International» data mentre era in attesa di partire la regista diceva di non voler più andare avanti con quel film e forse neppure col cinema, i suoi lavori sono infatti intimamente legati alla propria terra d’origine, il villaggio dei genitori nell’esordio, Wolf and Sheep ( 2016) – presentato alla Quinzaine come il successivo L’orfanotrofio (2019), girato a Kabul e nel programma del festival romano. E adesso? «Era un momento di stanchezza, ora sono determinata a andare avanti. E sai una cosa? Voglio fare una commedia romantica, non sopporto l’idea che un artista quando proviene da una certa realtà sia costretto a aderire all’immagine che gli altri si aspettano, nel mio caso la guerra, la disperazione delle donne, e tutto il resto. Questo ’limite’ diventa una nuova forma di censura».
Shahrbanoo Sadat, nata nel 1991, è cresciuta in Iran: «La mia famiglia è molto religiosa, fino a undici anni anche io la pensavo come loro, mi avevano fatto il lavaggio del cervello. Un giorno, ero ancora piccola, avevo deciso di diventare una leader religiosa. Ma ho capito subito che non avrei mai potuto perché ero una donna. Era inspiegabile per me e da allora ho iniziato a prendere la mia strada. Mi sembrava assurdo che tra 124000 profeti non vi fosse nessuna donna: c’è una ragione per cui dio parla solo agli uomini? Ho perso interesse verso l’islam e verso le religioni in genere che sono unite da questa esclusione nei confronti del femminile. Nel cattolicesimo Eva coglie la mela e per questo l’umanità perde il paradiso. Se fosse una sceneggiatura direi che l’ha scritta un pessimo autore. Nessuno che dice: «Per fortuna Eva cerca l’avventura!».

Vi aspettavate l’arrivo così rapido dei talebani e l’altrettanta rapida resa del governo afghano?
La vera vittima in Afghanistan è il popolo afghano, nessuno era contento del governo, in questi vent’anni la corruzione era diventata sfacciata, insopportabile. Con gli accordi di Doha l’orientamento della politica americana è apparso molto chiaro, i talebani da parte loro sono stati tattici, hanno conquistato sedici province mentre tutti noi eravamo consapevoli della debolezza del governo. Forse però non ci aspettavamo che si dileguasse così, senza neppure un tentativo di resistere e che anzi aveva già pianificato di scomparire. Dall’11 settembre sono cambiate molte cose per l’America, ma anche da noi c’erano state delle conquiste sociali, per esempio l’istruzione anche per le ragazze. Ora torneremo indietro, le donne sono di nuovo messe fuori dalla società, gli artisti non avranno spazio e i giornalisti, almeno chi è rimasto, si nascondono.

Come era la città in quei giorni, appena prima che tu andassi via?
Il 19 agosto, ho fatto la mia solita (e ultima) passeggiata di 7 km che faccio ogni giorno, a cui avevo rinunciato nei giorni precedenti perché avevo paura. C’erano questi soldati ovunque, con le sneakers americane ai piedi e vestiti in modo assurdo, mi sembrava di stare sul set di un film, o di essere finita nella macchina del tempo, come se quelle persone non appartenessero alla nostra epoca. Mi sono venuti in mente gli archivi coi film di propaganda anche dei talebani o dei terroristi diffusi per condizionare la mentalità del pubblico. E ho capito che i soldati non avevano il diritto di guardare una donna, nessuno mi guardava mentre camminavo.

Poi in che modo siete riusciti a partire?

L’aeroporto era una specie di mappa geopolitica, ogni gate aveva un diverso controllo. Non pensavo di farcela, all’inizio ho chiamato un contatto che avevo all’ambasciata francese, mi ha mandato nel lato nord, ma era l’entrata sbagliata: c’erano le Forze speciali afghane che sparavano. Anche i talebani sparavano in aria, si sentivano i proiettili sulla testa mentre eravamo ammassati. Col passare delle ore si era creata un’assurda normalità nel caos: passavano dei carretti che vendevano acqua, panini, era surreale. Ci abbiamo messo un giorno per superare il primo gate e così via uno dopo l’altro. I talebani volevano apparire generosi, cercavano l’approvazione internazionale quindi non ci fermavano troppo. Li osservavo, perché sono una filmmaker e ho pensato che anche loro sono vittime, che avrei dovuto odiarli e al tempo stesso non ci riuscivo.

Cosa vuoi dire?
Ci sono i ragazzini delle madrasse che crescono lì, subiscono il lavaggio del cervello in condizioni durissime per 16 ore al giorno, so bene che si prova, come ti dicevo anche io l’ho subito in Iran. E ero felice di come ero, il mondo per noi si divideva in musulmani e non musulmani, i primi sono buoni e gli altri cattivi: sei assolutamente sicuro del tuo credo. Al tempo stesso per i talebani la guerra è un lavoro, vengono pagati per farla. Perciò o non riuscivo a capire, e ancora non lo capisco, come il mondo poteva credere che erano cambiati. Mi ha dato molto fastidio il gesto della giornalista di Cnn (Clarissa Ward, ndr). Ancora oggi non hanno detto nulla sull’obbligo del velo, ma lei ecco che il giorno dopo il loro arrivo lo indossa in diretta davanti a tutto il mondo. Perché? È un modo di riconoscere la loro autorità. Ci sono state in questi anni molte vittime tra i giornalisti afghani, sono stati uccisi perché facevano il loro lavoro, per la democrazia. E invece la stampa americana decide di coprire gli eventi dal punto di vista dei talebani: è un pessimo modo di lavorare.

Anche per questo devi continuare a fare i tuoi film.
Penso col mio cuore, e con le mie emozioni, quando ho detto che volevo smettere ero in un momento terribile. Ora mentre parliamo sono invece convinta a continuare, non voglio dare ai talebani o ai terroristi il potere di cambiare il mio modo parlare dell’Afghanistan, di dire quanto è straordinario per me. Non sono interessata alle news, a quello che dicono di noi, mi interessa il cinema che in Afghanistan non c’è: il mio sogno è farlo per gli afghani e per il mondo.

Hai contatti con chi è rimasto?
Continuamente, sono molto preoccupata per mio fratello. L’accesso al Pakistan è bloccato, anche con un visto speciale si può rimanere al massimo sei settimane, ci sono code lunghissime al confine. Se sei del Pashmir anche in Pakistan ti danno la caccia, ti arrestano, diversi amici si nascondono. Ci sono tanti conflitti di equilibri sul confine che riguardano il controllo dell’oppio, e anche l’Iran che ora sostiene i talebani non so quanto durerà. Intanto in intere regioni stanno cacciando la gente dai villaggi per fare spazio ai loro nomadi. L’ennesima violenza.

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