Shabaka e la strana profezia dell’oracolo
Note sparse Il nuovo progetto musicale del sassofonista insieme a un gruppo di musicisti sudafricani dal titolo «We are sent here by history»
Note sparse Il nuovo progetto musicale del sassofonista insieme a un gruppo di musicisti sudafricani dal titolo «We are sent here by history»
Un incontro a Johannesburg, con il trombettista Mandla Mlangeni fa scoccare la scintilla tra Shabaka Hutchings e un gruppo di musicisti sudafricani della sua stessa generazione. In questo secondo album che esce per l’iconica Impulse!, Mlangeni ha però un ruolo più defilato partecipando solo all’orgiastica Beats Too Spoke Of Suffering, tra striduli di fiati, percussioni e voci filtrate. Shabaka and The Ancestors è un robusto sestetto: Mthuzu Mvubu, sax alto, Ariel Zomosky, basso, Tumi Mogorosi, batteria, Gontse Makhene, percussioni, Siyabonga Mthembu, voce, + i due ospiti fissi, Nduduzo Makhathini al fender rhodes (in due brani) e Thandi Ntuli al piano. Questo nuovo album, We are sent here by history, ha il sentore del responso di un oracolo fin dal titolo. Ma il sassofonista britannico pensa già da molto che le nostre società siano sull’orlo del precipizio e che l’estinzione degli umani è verosimilmente vicina.
ANCHE con l’altro trio più british, The Comet is Coming, il tema della catastrofe è abbastanza ricorrente. Sulla scorta di questi pensieri prendono forma le folgoranti composizioni di Shabaka in sintonia con le declamazioni di Siyabonga Mthembu, adattamenti dei versi visionari del giovane poeta sudafricano, Lindokuhle Nkosi. Shabaka è lettore vorace e si ispira a pensatori come Achille Mbembe; parte così dal presupposto che solo dalle rovine della Storia può aver luogo la rinascita, per articolare le sue utopie e per rielaborare in una visione idealistica e afrocentrica «cosa significa bruciare e cosa significa restare vivi».
COSÌ The Ancestors chiariscono l’antifona dalla prima, lunghissima traccia, They Who Must Die, sia concettualmente che musicalmente. Nel videoclip del primo singolo, Go my heart, go to heaven, i cultori riconosceranno i doppelgänger di Jordan Peele, ma la dualità (uomo-demone) serve qui come allegoria per rappresentare il trapasso. È anche un modo per ridefinire il concetto di mascolinità, il secondo tema che sta molto a cuore a Shabaka, cresciuto con la madre, senza riferimenti maschili. We Will Work (On Redefining Manhood) è l’avventura di un cuore di tenebra. Il suo sax è cool senza abnegare l’inclinazione rivoluzionaria e Shabaka si conferma un fuoriclasse; con Mvubu l’intesa è carnale, per non dire delle percussioni che incalzano sollevando polvere dal pavimento. Secondo capitolo affascinante e complesso alla ricerca di altre connessioni originali tra il jazz e le musiche d’Africa.
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