Alias

Sguardi in viaggio

Sguardi in viaggioMario Martone

Recensione "Mario Martone, la scena e lo schermo" a cura di Roberto De Gaetano e Bruno Roberti (Donzelli) sarà presentato mercoledì 12 alla Feltrinelli di piazza Colonna alle ore 18, coordina Antonio Gnoli, con il regista e i curatori

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 8 marzo 2014

 Concentrarsi sul passato per capire il presente e cambiarlo – sembra questo l’ovvio presupposto di una messa in scena teatrale come le Operette morali leopardiane o d’un film come Noi credevamo, quale emerge dal volume Mario Martone. La scena e lo schermo, a cura di Roberto De Gaetano e Bruno Roberti (editore Donzelli – Roma, 2013). Sembra abbastanza, eppure non è tutto qui. De Gaetano coglie nel segno, mi pare, tra gli Autoscatti martoniani e i quattordici interventi critici (Sguardi e Letture), quando sottolinea, a proposito di Noi credevamo: il punto non è che tutto è finito, il problema è che tutto è da cominciare.

Si tratta cioè di riaprire il tempo, in un’accezione che credo vada assunta nel suo senso più radicale. Che significa “riaprire il tempo”? Se l’interrogazione sul passato mi porta a modificare il concetto di presente (e a progettare di conseguenza un futuro diverso), ciò vuol dire anche che alla luce differente proiettata sul presente corrisponderà un passato visto sotto un’angolazione diversa: il presente, cambiando, cambia il passato, nel senso che mette in luce le possibilità inespresse che pure, in maniera virtuale, conteneva.

Allora diventa davvero fondamentale la direttrice Leopardi-Gramsci-Pasolini, individuata da De Gaetano come triade a partire dalla quale è possibile rielaborare i concetti filosofici, artistici e politici, indispensabili al proseguimento e al disperato/sperato compimento, d’una genealogia italiana. Senza dimenticare Goffredo Parise, del quale non a caso Martone ha portato sullo schermo L’odore del sangue.

Mario Martone ha avuto e ha il coraggio di compiere questa traversata, rivolgendo al passato uno sguardo che lo resuscita e lo vivifica. All’Angelo di Klee si presenta forse una seconda chance, le sue ali potrebbero tornare a battere. Benjamin forse non è morto (invano) a Portbou, così come i garibaldini non sono caduti (invano) sull’Aspromonte, inseguendo il sogno repubblicano. E non a caso il teatro di Martone è sempre teatro in metamorfosi (Rino Mele), aperto a suggestioni percettive inedite – teatro in (falso) movimento, che già implica il cinema – e il cinema ingloba il teatro, perfino il melodramma: ne ingloba i frammenti, li rielabora in qualcosa che si avvicina al concetto di opera d’arte totale (Massimo Fusillo). Ma perché “falso” movimento? Era questo il nome del gruppo teatrale fondato da Martone, che a un certo punto, diventando “Teatri Riuniti”, era arrivato a comprendere attori come Carlo Cecchi e Toni Servillo, attrici come Anna Bonaiuto e Iaia Forte (per nominarne solo alcuni). Ma perché “falso”? – insisto. Perché riallacciarsi al titolo del film di Wenders? Forse perché, come scopre Wilhelm Meister, partire in viaggio per esplorare la propria anima si rivela alla lunga impresa illusoria, e l’impressione di movimento si risolve in stasi. O meglio: il movimento, come nel cinema, si basa sulla stasi, lo percepiamo solo se non percepiamo gli intervalli tra un fotogramma e l’altro. Abbaglio dello sguardo.

Noi credevamo, per esempio, non è un film “in costume” – è semmai un film di fantasmi, di vite sacrificate sulle ceneri di troppe illusioni tradite. Così, credo che neppure Il giovane favoloso, il film in lavorazione su Leopardi, sarà un film “in costume”. Il passato parla di noi, e può dirci cose molto importanti, cominciando, tra l’altro, a mettere i puntini sulle i di questo noi, la cui genericità troppo facilmente si presta alla retorica del consumo celebrativo. Noi è senza dubbio una “dolce parola”, e Martone ha sempre ricercato la comunità, il lavoro di gruppo. Tuttavia ha scritto una volta (sul n.18 della rivista “Fata Morgana”):

“Ho sempre cercato di evitare che la comunità si fissasse, si bloccasse. Il gruppo è una grande risorsa, ma può anche rischiare di diventare una grande prigione. In questo è simile alla famiglia, ovvero un qualcosa che ti dà origini, radici, rapporti profondi, ma da cui poi, a un certo punto, bisogna smarcarsi per crescere.”

Non a caso il suo “sguardo in viaggio” parte da Napoli (città-avatar, la definisce Bruno Roberti) per affrontare le radici oscure della “questione italiana”. Napoli, allora, può anche somigliare ad Alphaville, può essere ugualmente (e diversamente) criptica e misteriosa. E’ la città notturna di Viviani, della Morante, della Morte di un matematico napoletano. La Napoli di Ranieri, l’amico di Leopardi. E la Napoli non nominata della Serata a Colono, lo scenario tramite il quale, attraverso Elsa Morante, Martone in fondo si riallaccia a Pasolini. Edipo accecato muore vaneggiando, tra il mormorio degli altri pazzi ricoverati alla Neurodeliri, ma il grido di sua figlia Antigone, l’Antigone ignorante, innocente e un po’ ritardata della Morante, è il grido eterno e inestinguibile della pietà e della rabbia – ossia, del fondamento originario d’ogni rivolta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento